Per una volta riporto un articolo, breve e incisivo, che secondo me merita di essere ben analizzato. E che approvo.
Questo.
Non ho l’onore di conoscere Massimo Faggioli ma apprezzo la sua analisi della questione; dopo mesi passati a leggere deliri on line di soggetti che maledicono Enzo Bianchi, plausibilmente ritenendosi “più cattolici” del priore di Bose, incontrare qualcuno che apprezza il percorso del barbuto quasi-eremita torinese contribuisce a risanare un bell’equilibrio.
Intendiamoci, nessuno è perfetto, tantomeno Bianchi. Avrei da ridire sull’elitarietà di Bose, cresciuta negli ultimi anni di pari passo al prezzo del soggiorno monastico per noi poveri laici affamati di parole di salvezza e riflessioni evangeliche. Se avessi letto tutti i suoi libri, troverei senz’altro passaggi sui quali non concorderei. Ribadiamolo: nessuno è perfetto.
Apprezzo, però, lo sforzo ecumenico di Bianchi e della comunità di Bose, lo spirito profondamente evangelico con il quale affrontano la vita e la comunione, l’essere cristiani e il risalire alla fonte tradizionale senza, per questo, essere conservatori e tradizionalisti. Apprezzo l’idea di cavalcare l’onda d’urto del Concilio Vaticano II, nel tentativo di non farla infrangere contro muraglioni di ignoranza e conservazione fine a se stessa.
Qui dovremmo introdurre una profonda riflessione sulla Chiesa e sul suo futuro. Molti tradizionalisti hanno una visione distorta della Tradizione e ripropongono decisioni vetuste al solo scopo di riproporle, fini a se stesse, senza riflettere sul significato che possedevano quando sono state prese, sulla rottura che comportavano all’epoca, sulla sparizione dei moventi che le hanno prodotte.
Prendiamo la scelta del latino: fu meramente pragmatica e razionale, non certo sacrale o tradizionalista. Nessun testo sacro è stato scritto originalmente in latino, Gesù di certo non parlava latino. Lo parlava, però, l’Impero, in particolare a occidente. Era, quella, una lingua comune, comprensibile a buona parte della popolazione, anche quella meno erudita, quantomeno nei fondamenti. Mentre nascevano le lingue romanze – il volgare – il latino rimaneva la lingua dei dotti ma aveva sufficienti connessioni con il parlato per consentire una comprensione generica a una parte della popolazione non trascurabile. Di contro, celebrare oggi in latino significherebbe escludere dalla comprensione liturgica una amplissima parte della popolazione: e in Italia ancora andrebbe bene, visto che studiamo latino nei licei… (non che il latino del liceo consenta di comprendere appieno le sfumature del testo liturgico, eh!).
A ben vedere, se volessimo seguire questo percorso tradizionale, oggi dovremmo celebrare in inglese, vera lingua comune di tutto l’occidente (cristiano). Si spera, dopotutto, che la percentuale di italiani che comprendono l’inglese cresca con gli anni; non sarebbe un’idea malsana.
L’esempio linguistico può essere riprodotto su moltissimi temi di disquisizione tra conservatori e “modernisti”. Buona parte dei refrattari, infatti, si culla nell’ignoranza delle motivazioni storiche, politiche e contingenti delle scelte conciliari – siamo pur sempre una fede modellata dalle esigenze terrene di un imperatore pagano – e si rifiuta di ammettere che ciò che loro chiamano “Tradizione”in realtà ha sovrascritto usanze precedenti, spesso millenarie, senza alcun motivo teologico ma solo per meglio adattarsi alla riformata struttura che la Chiesa si stava dando a Trento.
Io non ritengo scandalose le decisioni conciliari di Trento, sono frutto del loro tempo e, in qualche modo, lo Spirito ha messo la mano anche lì, non ne dubito. Altrettanto dovrebbe accadere con i conservatori odierni: sono certo che, come a molti non piacquero alcune innovazioni tridentine, così non piacciano a loro alcune innovazioni vaticane. Eppure tutto fa parte dell’evoluzione della Chiesa, inevitabile se vuole rimanere “nel mondo”. Peraltro, molte opzioni non sono novità ma reminiscenze del passato, un passato obliterato dallo sforzo unificatore del Concilio Tridentino. Quell’unità univoca, che aveva un preciso scopo nella realtà storica del XVI° secolo, oggi ha perso il primato, a favore di una maggior aderenza alle esigenze puntuali dei fedeli, mantenendo salda la cattolicità della Chiesa pur nelle diversità, esteriori, dei dettagli.
Lo scopo della Chiesa non è conservarsi immobile nel tempo: fosse così, avremmo già perso la partita ancor prima di iniziarla (e Trento non ha certo conservato!). Semmai lo scopo della Chiesa – che è la comunità dei fedeli, universale e locale – è quello di annunciare il Vangelo: per farlo, deve essere pienamente dentro alla realtà a lei contemporanea o non avrà di che parlare alle donne e agli uomini che incontra.
Credo che Bianchi esegua propriamente questo compito: presente sui giornali e in TV, sa annunciare la Parola con l’efficacia di un predicatore medievale, adattando però il suo agire ai mezzi che il suo tempo gli offre.
Non è un monaco privo di difetti ma di certo è una pietra importante per la Chiesa del futuro. Mi auguro.
Una Chiesa composta da pietre radicalmente diverse da quella di Bianchi rischierebbe di essere una Chiesa traditrice del messaggio originale di Cristo: non certo uno che è venuto a mantenere l’ordine precostituito ma, semmai, a ricordarci che ne deve venire uno nuovo.
E io ci credo.