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Lo Spirito non è un burattinaio: il conclave e il libero arbitrio


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Leggendo e parlando in questi complicati giorni che hanno seguito il rivoluzionario annuncio di Benedetto XVI, mi sono trovato anche a discutere della successione all’attuale papa e delle caratteristiche dei papabili. Non pochi, riferendosi al conclave incipiente, hanno pronunciato frasi sintetizzabili così: “il papa lo sceglie lo Spirito Santo, confidiamo in lui”.
C’è moltissima inesattezza in questa opinione, che suona come un abbandono al destino e non un affidarsi all’azione dello Spirito. Difetta di fede, in fondo. 

I cardinali non sono burattini e il conclave non è infallibile. Sono due punti saldi ai quali non possiamo rinunciare, pena problemi rilevanti per la Chiesa e per la nostra fede.
I cardinali – principi della Chiesa – sono esseri umani, quindi godono del pieno libero arbitrio in ogni loro scelta. Lo Spirito non è un grande burattinaio che pilota i voti e non stabilisce chi voterà chi: ispira le anime, mostra una via, parla nei cuori e nelle coscienze di tutti noi e, ovviamente, in quelle dei cardinali, tanto più in momenti così delicati per il cristianesimo. Ma i cardinali restano esseri umani come noi. Pregano per discernere e per comprendere quale sia la via indicata loro dallo Spirito; lo faranno in particolar modo prima del conclave, per poter compiere la scelta migliore per la Chiesa, ma questo non ci assicura che accolgano davvero la guida dello Spirito. I cardinali sono esseri umani: hanno debolezze, difetti, sentimenti tipicamente umani. Duellano tra loro per questioni prettamente secolari – non credo che dirlo costituisca sacrilegio, anzi: dobbiamo prenderne coscienza – sono a volte mossi dall’invidia, dalla brama di potere, dal denaro; subiscono pressioni esterne e sbagliano in buona fede. Quante volte nei secoli sant’uomini avranno agito pensando di fare il bene della Chiesa e, invece, pilotandola lontana delle sponde?

Da questo otteniamo ovviamente la seconda asserzione: non c’è garanzia di infallibilità per il Conclave. I cardinali sono completamente liberi nel dare il loro voto. Certo, pregheranno per ricevere il dono del discernimento dallo Spirito. Certo, lo Spirito donerà loro la sua guida. Non certo, invece, è che questo dono sia accolto.
La tradizione stessa della Chiesa non ci parla mai di “infallibilità” per il conclave; sappiamo che il papa può effettuare pronunciamenti infallibili, sappiamo che la Chiesa nella sua collegialità gode di una certa infallibilità ma nulla si dice del conclave. E poi non serve certo discuterne teologicamente: il Dio di noi cristiani non è un cospiratore, non agisce dietro le quinte come un regista occulto. Semmai è un suggeritore, un amico che ci consiglia come mandare avanti questa commedia, senza mai obbligarci a seguire quello che dice. La scelta di seguirlo, alla fine, è sempre nostra.

Nulla ci assicura che il papa eletto dal conclave sia scelto da Dio, il migliore possibile o anche solo idoneo al ruolo. San Vincenzo Pallotti diceva: «Alcuni papi Dio li vuole, alcuni li permette, altri li tollera». Abbiamo un lungo elenco di papi non idonei alla Chiesa, ai loro tempi e alle sfide che si sono trovati ad affrontare, papi che hanno recato alla Chiesa più danni che benefici. Ma anche questo fa parte del segreto incomprensibile dell’Amore: Dio ci ha donato la libertà perché ci ama e questa libertà è tale da consentirci di sbagliare e anche di rifiutarlo. Possiamo pregare perché i cardinali sappiano discernere la guida dello Spirito nella loro scelta imminente ma non possiamo essere certi che essa sia guidata dalla fede e non dal denaro, dal potere, dai vizi umani o, semplicemente, dall’errore involontario di quello che è e rimane un comune fratello. Per questo preghiamo: perché ci fidiamo – abbiamo fede. E perché sappiamo che siamo amati: ma, come sempre, il destino dell’uomo è nelle sue mani, nella sua capacità di accogliere l’amore di Dio.

 
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Pubblicato da su 13 febbraio 2013 in Religione, Sproloqui

 

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MoVimento 5 Fasci


Più trascorre il tempo, più mi trovo preoccupato per la presenza fascistizzante del MoVimento Cinque Stelle in Italia. Certamente i “grillini” non sono pericolosi – immediatamente e direttamente pericolosi, specifico – quanto Alba Dorata in Grecia, ma le cose stanno già cambiando, con una certa fretta.
Lo storico che risiede nel mio intelletto, però, ha preoccupazioni frequenti sul dire e sul fare di Grillo e dei suoi compagni di partito.

Un Grillo portatore di

Un Grillo portatore di “fascismo”?

Chiariamo subito che il M5S è un partito. Possono negarlo, possono usare nomi diversi ma i grillini sono un partito. Non è certo la struttura dell’organigramma o statutaria a creare un partito ma la sua natura ideale e idealistica. Sotto al M5S risiede un piano ideale – lo scontento popolare nei confronti di una certa politica – che unifica e tiene assieme il gruppo ed è condiviso dai suoi membri (chi non lo fa è lì far carriera: alcuni soggetti del genere li conosco e, ovviamente, sono in ogni partito, associazione, movimento).
Ecco perché sbagliamo a chiamare “antipolitica” la loro azione: è politica vera e propria.
Dal programma all’azione amministrativa, la loro iniziativa pubblica è politica piena, intesa come partecipazione alla gestione della “cosa pubblica.

Fatta luce su questo, possiamo analizzare più a fondo quali sono gli elementi allarmanti.
C’è l’odio manifesto verso le altre forze politiche. Il fascismo era fondato su un sentimento analogo, in reazione alla presenza comunista del biennio rosso. Oggi l’opzione 5 stelle si fonda sull’assalto alla “casta” politica, ai suoi privilegi, al sistema repubblicano, etc. Il contrapporre “noi” a “loro”, facendo di “loro” un unico cumulo di politicanti inetti e (rari) onesti parlamentari, è esattamente quanto fecero all’alba del Ventennio i gerarchi e Mussolini in particolare. Alla mollezza dei liberisti, all’inutilità dei socialisti, il PNF reagiva con la virilità e la forza del vero uomo italico, incarnato dal fascio di combattimento.

Da qui troviamo l’aggancio con un altro elemento di profonda vicinanza: il M5S si fa portatore di una “politica nuova” che “cambierà il paese” (in meglio). Ritroviamo aspressioni analoghe anche nei discorsi parlamentari del Duce, spesso al passato: erano modi di dire tipici del Ventennio acquisito, strumento di propaganda. Oggi li ritroviamo in quel che i grillini prospettano oggi per domani.
E anche la propaganda è un elemento dell’agenda M5S che fa abbastanza paura. Mi ha spaventato, in particolare, il comunicato della cellula milanese, rivolto ai giornalisti, che spiegava come questi avrebbero dovuto rivolgersi al M5S, con quale appellativo chiamare i suoi rappresentanti e via dicendo. Un esempio di comunicazione d’imposizione, di maiuscole, di ordini. Anche lì è presente la volontà di distinguere tra “loro” e “gli altri”, se non ve ne foste accorti. Come i toni minacciosi, pur elegantemente travestiti, negli interventi pubblici di molti esponenti del partito. Tutti sono molto abili nel criticare i dettagli, nessuno sembra in grado di avanzare soluzioni propositive con altrettanto dettaglio, si limitano a “indicazioni generali”, salvo poi sviare su altri difetti dell’amministrazione. Politica di bassa lega, secondo me, che ha sostituito il manganello reale con quello telematico.

Tocchiamo anche il tasto “Grillo & la democrazia”.
Il leader, che chiede più democrazia nelle istituzioni, agisce come un capo solitario, signore assoluto del partito. Che lo sia davvero o che sia presente una struttura oligarchica di cui Grillo è la facciata cambia poco. Grillo, come Berlusconi, fa e disfa, ordina e pretende, annette ed espelle senza rendere conto a nessuno. Ed è idolatrato dai suoi, peraltro, che raramente ne denunciano le scorrettezze e, quando ciò accade, si vedono tagliare fuori dal movimento. Atteggiamenti da papa-imperatore, con potere medievale di scomunica. http://infosannio.files.wordpress.com/2012/07/beppe-grillo-120715182702_big-pagespeed-ic-epghzpjk5v.jpg?w=300&h=197
Le attuali “parlamentarie” sono un esempio lampante di quanto fin qui detto. Mentre il centro sinistra ha fatto scegliere il proprio leader a tutti gli italiani, senza chiedere tessere di partito o altro, Grillo farà decidere i candidati dai tesserati, rigorosamente prima di una certa data, con regole interne e utilizzando il web, quindi parzializzando l’elettorato in base alla capacità di fruire del mezzo.
Per quanto non apprezzi granché Bersani, per quanto ritenga Renzi all’altezza di Berlusconi, per quanto non voti Pd, credo che la lezione di democrazia e partecipazione popolare questa volta Grillo debba prenderla anziché darla. E potrebbe prenderla addirittura da gentedi destra come la Meloni, che le primarie le voleva davvero. Un po’ preoccupante.

L’urgenza e il pericolo non vengono tanto dall’effetto “dilettante allo sbaraglio” quanto dal populismo dilagante nel M5S. In fin dei conti il populismo è solo una risposta alle pulsioni più dirette e viscerali, non particolaremente rianalizzate e immediatamente risolte, spesso con brutalità. Il passo da questo a una più profonda crisi del sistema democratico, in una situazione in cui gli assetti istituzionali sono già a rischio, è veramente breve. Le espressioni di molti elettori – “li voto per cambiare le cose”, “non potranno essere peggio”, “sono solo uno strumento per liberarsi del male che c’è ora” sono tristemente note a chi ha studiato la storia contemporanea. Rimandano a ciò che dicevano i liberali e gli elettori “preoccupati” dal biennio rosso, che hanno spinto Mussolini al governo e l’Italia nel baratro del Ventennio. Sottovalutare gli elementi narrati sopra potrebbe portare a soluzioni assolutistiche vissute come “male minore” ma difficili poi da rimuovere.

Posso aggiungere in coda che provo comunque una certa stima per quelle cittadine e quei cittadini che, con le migliori intenzioni, sono parte del MoVimento 5 Stelle e che intendono cambiare in meglio il paese. Credo, però, che sia giusto iniziare ad avvisare sulle derive che il grillismo, Grillo e i Grillini stanno prendendo in questi mesi. Non tanto per sentenziare poi “io ve l’avevo detto” quanto per impedire che a una crisi democratica gravissima – quella che stiamo vivendo oggi e che dura dal 1994 – ne segua una ancora peggiore.
Vigiliamo, stiamo attenti e non allontaniamoci dalla politica e dalla volontà di pensare e costruire un domani migliore.

 
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Pubblicato da su 3 dicembre 2012 in Politica, Teoria

 

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Cinquantesimo anno


Giovanni XXIII apre il Concilio Vaticano II

Giovanni XXIII apre il Concilio Vaticano II

Era un giovedì 11 ottobre 1962, un giovedì d’autunno come oggi. Quel giorno si aprivano le speranze situate nei cuori di un miliardo di cristiani. Un gesto coraggioso quello compiuto dal pastore bergamasco, quasi un pretone di campagna asceso al soglio pontificio; incaricato tra le righe dal Conclave di reggere la Chiesa per qualche anno in un pontificato di transizione, Angelo Roncalli seppe leggere quei segni dei tempi che richiedevano una profonda rivisitazione della missione pastorale della Chiesa e dar loro forma con la convocazione del Concilio.
Il pastore cambiò per sempre il corso della nostra storia e dette alla Chiesa gli strumenti per presentarsi con maggior efficacia di fronte alle sfide del XX° secolo.

Cinquant’anni dopo la Chiesa delineata da quel Concilio è ancora lontana dal compiersi. Troppe le paure, troppo rumorose le numericamente piccole resistenze conservatrici, troppo il timore di perdersi nel cambiare pagina.
Siamo ancora troppo spesso una Chiesa immobile, incapace di far vedere all’umanità come la risposta principale sia Cristo. Chi si volta indietro, osservando con bramosia i tempi in cui la Chiesa era padrona delle menti e dei regnanti, perde di vista l’orizzonte storico entro il quale il cristianesimo deve rimanere, soprattutto la Chiesa. Essa è, insieme, la comunità dei credenti e il Corpo di Cristo incarnato nella storia: dimenticando una di queste dimensioni si va incontro allo smarrimento.

Ritornando sull’immobilità e sulla paura, ascoltando i discorsi di chi si dice “tradizionalista”, sembra quasi che nel passato la Chiesa abbia vissuto senza alcuna difficoltà. Eppure, come diceva Giovanni XXIII aprendo il Concilio, “non possiamo tuttavia negare che nella lunga serie di diciannove secoli molti dolori e amarezze hanno oscurato questa storia“. Conosciamo oggi molti dolori, molti errori, molte pecche di questa Chiesa, emerse da quel 1962 a oggi; non dimentichiamo mai gli scandali della pedofilia, coperti da ogni livello ecclesiastico, curia romana compresa. Chi mira alla sola tradizione, facendosi fanatico, dimentica le difficoltà e gli errori, dimentica l’umanità insita nella Chiesa. E dimentica che con il Concilio i passi verso la tradizione apostolica, quella antica di duemila anni, sono stati molto più notevoli che nell’immediato post-concilio tridentino.

Francobollo celebrativo del Concilio Vaticano II

Francobollo celebrativo del Concilio Vaticano II

Il Concilio ha aperto nuove frontiere e qualche spaccatura: d’altronde Cristo “è qui per la rovina e la risurrezione di molti…, segno di contraddizione“. Una contraddizione che impone al cristiano stesso, se egli guarda appieno al mondo che lo circonda, perché il messaggio di salvezza e amore è quanto di più contraddittorio possiamo trovare con l’attuale società.
Eppure il cristiano è chiamato a non fuggirne, anzi: deve operare al suo interno senza mai venir meno al dovere di mostrare Cristo agli altri. Sempre, anche quando la speranza sembra svanire, anche quando non sembra esserci alcuna presenza paterna e fraterna, anche quando nulla ricorda alle nostre menti il Padre.
Contraddittorio anche interno alla Chiesa. Una maggioranza, silente e operosa, dedita a proseguire l’opera del Concilio; una minoranza, rumorosa e molesta, impegnata a smontare lo sguardo ai tempi, a distruggere l’efficacia dell’evangelizzazione, a minare l’annuncio. La Chiesa non è fatta di teologi e cardinali, di prelati timorosi, ma di credenti che si sporcano le mano ogni giorno tra i poveri, gli affamati, i malati, i dimenticati. Come faceva Cristo.
Memori delle Scritture, però, ci ricordiamo che Dio è nella brezza, non nel fuoco, nel terremoto o nel vento.
Quella brezza, ancora, lavora per portare il messaggio cristiano nel XXI° secolo, nonostante le difficoltà.

Delineo, allora, la necessità di lavorare fino in fondo sul mandato conciliare.
Serve un maggior impegno del laicato nella gestione ecclesiastica, a ogni livello. Urge un coinvolgimento di base, come urge un coinvolgimento graduale anche ai più alti livelli. Non c’è alcun bisogno che tutte le cariche della Chiesa siano ricoperte da ecclesiastici – maschi – quando il ruolo presbiterale è ben più importante. Certamente la guida episcopale – il pastore – è fondamentale e insostituibile ma molte svolte possono essere compiute.
Serve un reale confronto con le questioni che riguardano la contemporaneità, a partire dal confronto con i laici, i fratelli cristiani, gli atei, i credenti di altre fedi: fine vita, sessualità, giustizia. Leggere i segni dei tempi, come disse papa Roncalli.
Serve un chiaro impegno sociale della Chiesa, senza mezze vie, senza titubanze, senza intrighi di palazzo. Il cristianesimo deve schierarsi compatto al fianco degli ultimi: bambini, persone senza diritti, disoccupati, malati, donne, perseguitati, carcerati.
Infine, serve un profondo processo di purificazione della Chiesa. Interiore, soprattutto: questioni da affrontare non mancano, modi di fare datati da sostituire neppure.
C’è ancora molta, moltissima strada da fare.

Posso solo dire e sperare, citando Giovanni XXIII: “È appena l’aurora

 
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Pubblicato da su 11 ottobre 2012 in Il Concilio, Religione

 

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Marxismo e cristianesimo: un debito d’onore


Credo che dobbiamo molto al marxismo se il cristianesimo di oggi è quel che è.
Una dichiarazione così provocatoria richiede una spiegazione altrettanto forte e, anche se non sono ancora disposto a investire a fondo su questo punto, credo che meriti un approfondimento. L’argomentazione è tutt’ora in divenire ma ritengo meriti quantomeno l’affrontare un giudizio critico – e comparato – per poter uscire dall’empasse dell’auto-confermazione. Non è una meditazione comparsa dal nulla: piuttosto ho a che fare con una conferma giunta da voce autorevole; le letture di Karl Popper, argomento della mia tesi di laurea, hanno indubbiamente stimolato il processo e, sinceramente, devo all’epistemologo austriaco il fulcro del tema che illustrerò tra poco. La Società aperta e i suoi nemici: Hegel e Marx falsi profeti è indubbiamente la principale origine di queste pagine; vi rimando a pag. 237 dell’edizione Armando Editore per la lettura del testo integrale.

In primo luogo, dobbiamo prendere in mano il marxismo originario, quello che chiamo puro marxismo. Parlo del marxismo di Marx: eliminiamo ogni influenza posteriore, ogni elaborazione dei suoi discepoli, seguaci o epitomi.  Certamente l’influenza sociale di tutti questi fattori è stata importante – anche centrale, per il tema che trattiamo – ma è necessario partire da Marx per capirne l’influenza che ha avuto sul cristianesimo e individuare ancora oggi questa sua presenza.
La seconda spunta dobbiamo metterla su una dichiarazione forte quasi quanto quella d’apertura: Marx era un ottimista e un buono. Sperava in un futuro migliore – addirittura vi credeva con così tanta forza da profetizzarlo – e si impegnava affinché questo futuro diventasse presente in breve, con la minima quantità di doglie e senza perdersi lungo la strada. Sicuramente ci sono affermazioni di Marx che contrastano con questa descrizione: non dobbiamo lasciarci spaventare dal suo materialismo, dal suo cinismo, dai progetti rivoluzionari: tutto sommato Marx si è reso un ingranaggio di un meccanismo molto più complesso di quanto credesse lui stesso in origine e non dubito che neppure lui fosse consapevole del fondo di bontà che si racchiudeva alla base della sua teoria. Le condizioni di vita degli operai dell’epoca erano veramente inumane e queste persone erano vittime di uno sfruttamento selvaggio da parte del ceto padronale: non potevano non alzarsi voci di protesta, voci di giustizia.
Infine, ultimo elemento di partenza: il marxismo è fallato, non funziona e – nonostante l’allergia di Marx per le utopie – è vittima dell’utopismo della peggior specie, quello che Popper chiama storicismo. Non mi soffermerò ora sullo storicismo: c’è la mia tesi, per quello. Vi dirò solo che il marxismo si pone come teoria socio-economica di stampo scientifico, mentre si guarda bene dall’esserlo davvero. Affetto da dogmatismo, da ipotesi ad hoc, da passaggi forzati, il marxismo per come l’ha disegnato Marx non funziona. Essenzialmente credo che sia perché è stato pensato per una società di metà ottocento e identicamente applicato a una società di oltre mezzo secolo più tarda; il dogmatismo pseudo religioso dei marxisti ha impedito una sua rivisitazione, il che ha condotto completamente fuori strada i tentativi di rigida applicazione. Dopotutto, la socialdemocrazia in Svezia ha funzionato benissimo e a lungo.

Fissate le basi, passiamo all’argomentazione vera e propria. L’etica cattolica “ufficiale” ( o gerarchica, preferisco chiamarla) dell’epoca era quanto di più vergognosamente anticristiano possiamo immaginare. Che a distanza di tempo molte dichiarazioni ci sembrino fuori luogo non impedisce di ritenerle in profondo contrasto con il messaggio evangelico. Il ministro Townsend – ministro in entrambe le accezioni che possono sovvenivi – scrisse che “la fame non soltanto è una pressione pacifica, silenziosa, incessante, ma, come motivo più naturale dell’industria e del lavoro, destra gli sforzi più potenti”, aggiungendo nel suo dipingere un’idea cristiana di società: “Sembra una legge di natura che i poveri siano in una certa misura sventati cosicché ve ne siano sempre per l’adempimento delle funzioni più servili, più sudice e più volgari della comunità. Il fondo di felicità umana viene in tal modo molto accresciuto, le persone più delicate sono liberate dal lavoro molesto e possono accudire indisturbate alle loro superiore missione”. Sembra quasi che  queste siano “l’armonia, la bellezza, la simmetria di questo sistema che Dio e la natura hanno instaurato nel mondo”. Questo con il cristianesimo non ha nulla a che vedere, appare ovvio senza neppure dover argomentare: è semplicemente in collisione frontale con qualsiasi passaggio del Vangelo circa l’amore fraterno, il rispetto per i deboli, l’uguaglianza dei fratelli… e potrei proseguire per alcune righe. Sappiamo oggi che il cristianesimo – romano/cattolico ma non solo – si è rimesso in carreggiata; soprattutto grazie al Concilio Vaticano II l’attenzione al sociale e, in particolare, a quelle fasce più deboli e meno tutelate è emersa per quello che giustamente deve essere: il fulcro dell’opera di annuncio della Buona Novella, che poi è lo scopo della Chiesa. Il cambiamento è altrettanto evidente quanto l’incoerenza delle citazioni precedenti ed è in questo passaggio che possiamo provare a inserire il marxismo e le sue attuazioni sul globo. È infatti anche merito del marxismo – secondo me il marxismo ha svolto un ruolo centrale, in questo – se il cristianesimo ha assunto il suo ruolo attuale, riprendendo veramente le parole del Vangelo anche in quelle parti che giacevano dimenticate.
Marx per il cristianesimo è stato l’idea correttiva, per usare una definizione di Kierkegaard; non la sola, io credo, ma una fondamentale. Molte altre idee correttive del cristianesimo moderno, quelle idee che l’hanno spinto verso un marcato impegno sociale, sono anch’esse derivate o frutto del marxismo; spesso frutto anche della paura della rigida applicazione marxista, come abbiamo visto in Russia, altre volte frutto di una volontà di reinterpretare il marxismo, rifiutandone il dogmatismo sistematico e gli eccessi di violenza, la ricerca della lotta di classe. Il marxismo, scrivevo prima, non funziona, non ha mai funzionato e, in quanto tale, non funzionerà certo nel futuro; è un bel disegno astratto che poco ha a che fare con la realtà. Però dobbiamo riconoscergli che l’idea fondante – una maggior giustizia sociale – non può essere rinnegata e, anzi, deve trovare sempre maggior spazio nella nostra società. Come un ariete che ha sfondato per primo i portali di una città assediata consentendo alle truppe di penetrarvi, il marxismo ha aperto una via in cui molti si sono inseriti e nella quale il cristianesimo ha ritrovato una radice che sembrava smarrita da tempo. Per questo non posso negare il debito d’onore che noi cristiani abbiamo contratto con i marxisti.

 
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Pubblicato da su 13 luglio 2011 in Politica, Sproloqui

 

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[Letture 3] Lista dei desideri…


Altro post a carattere personale, perdipiù estremamente breve.
Stasera ho creato la lista dei desideri su Amazon; pensavo di farne uno strumento per il mio compleanno ma mi ha aiutato non poco a mettere ordine nell’elenco dei miei desideri, soprattutto librari. Sono veramente troppi…

Ho inserito libri di storia, soprattutto contemporanea, pescati dalle liste degli esami, dalla bibliografia di altri testi, da autori di cui mi son piaciuti altri libri. Ho inserito un po’ di letteratura fantasy, ma neppure troppa. C’è un po’ di King, giusto un accenno. C’è moltissima storia del Concilio Vaticano II.
si, sono matto… lo so…

Che altro? Vedremo se servirà, di più non saprei cosa dire. Comunque, se leggete il post e volete farmi un regalo, vi consiglio di ordinare la lista in ordine di priorità!
Doppia versione: quella in italiano e quella per i libri in inglese (.com).

Buona settimana a tutti!

 
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Pubblicato da su 27 giugno 2011 in Diari, Libri

 

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10 giugno 1924: morte di un eroe


Ottantasette anni son passati e siamo ancora qui a ricordare il martirio di un politico che ha donato la sua vita all’Italia, massacrato dalla violenza di un regime che non possiamo e non dobbiamo dimenticare.
Non credo di voler dire molto, al riguardo: in effetti, c’è poco da dire senza ricadere negli schemi già visti, da una parte o dall’altra.
Matteotti è stato un eroe a prescindere dal pensiero politico e a prescindere dalla sua morte: è stato un eroe perché s’è apertamente schierato contro il regime vincitore, quel regime che aveva già dimostrato una spiccata predisposizione per la violenza e per il disprezzo del rivale politico. Quello stesso regime che, giunto al potere con la violenza, con la violenza si era garantito il consenso elettorale.
Oggi ci può ancora dire qualcosa questa parabola: non credo ci troviamo in identiche ambasce per la nostra democrazia ma il pericolo è vivo non tanto per la pericolosità dei politicanti – ce lo vedete Vendola dittatore o lo Psiconano a piazza Venezia? – quanto per il disinteresse e la disaffezione degli italiani.
Il problema politico, nella sua più ampia accezione, tende a scivolarci addosso; il voto è gesto superficiale, mai approfondito, mai critico. Da questo dobbiamo difenderci e questo è il vero pericolo del berlusconismo: l’anestesia delle coscienze, il sonno della mente. Un sonno forse rinfrancante, forse portatore d’oblio: ma al risveglio cosa troveremo della nostra Italia?

Matteotti ci lascia questo messaggio, assieme agli altri Padri della nostra patria: vigilate e lottate, impegnatevi. Che siate di destra o di sinistra, liberali o socialisti, democristiani o grillini: non smettete di criticare, non smettete di indagare, non smettete di capire. Soprattutto, non smettete di pensare. Ne va della vostra libertà!

Alcune sue parole per finire questo post; forse è utile ricordarlo non solo per la sua morte ma per i motivi che spinsero il regime a ucciderlo. Le sue parole era una condanna alla conduzione politica del tragico governo fascista: oggi suonano come un monito che non dobbiamo dimenticare. Mai come oggi, in quest’Italia in cui la democrazia è appesa a un filo, ricordare dove può giungere l’orrore della dittatura è fondamentale e centrale nella lotta costante per il mantenimento della libertà.
Innanzitutto è necessario prendere, rispetto alla Dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fino qui; la nostra resistenza al regime dell’arbitrio dev’essere più attiva, non bisogna cedere su nessun punto, non abbandonare nessuna posizione senza le più decise, le più alte proteste. Tutti i diritti cittadini devono essere rivendicati; lo stesso codice riconosce la legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e libertà, (…) Perciò un Partito di classe e di netta opposizione non può accogliere che quelli i quali siano decisi a una resistenza senza limite, con disciplina ferma, tutta diretta ad un fine, la libertà del popolo italiano.

 
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Pubblicato da su 10 giugno 2011 in Politica

 

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Bipolarismo e legge elettorale


Grazie a Facebook mi sono imbattuto in questo blog: a quanto pare non sono l’unico nell’ambiente GdR a occuparsi di politica. E questo mi ha dato spunto per finire, dopo averlo ritoccato affinché si adattasse all’occasione, un post che meditavo da un po’.

Da tempo rifletto sulla nostra attuale legge elettorale e devo ammettere a malincuore che non vedo soluzioni particolarmente brillanti. L’articolo che vi ho linkato propone un mantenimento della rotta su una linea bipolare, come quella che stiamo vivendo dalla “discesa in campo” a oggi; le motivazioni addotte sono notevoli e ben salde, tutte pensate e riflettute nell’ambito della democrazia, che tanto soffre in Italia di questi tempi.
Trovo la riflessione accurata – come, ovviamente, accuratissimo il documento linkato – ma non posso concordare sulle conclusioni. Non credo che il bipolarismo sia una soluzione valida per l’Italia.

In primo luogo, non vedo la superiorità del bipolarismo che, anzi, ha la tendenza a creare forze politiche molto simili tra loro, appiattendo le differenze. Come il teorema dei gelatai ben ci dice, se le forze politiche son solo due esse tendono ad avvicinarsi, per contendersi i veri voti decisivi: quelli di mezzo. Negli USA questo accade: Democratici e Repubblicani presentano politiche molto simili, pur con divergenze di valore, e si contendono di volta in volta la vittoria. D’altronde gli USA non possono essere esempio funzionale per l’Italia perché posseggono una storia completamente diversa, basti pensare al peso che ancora oggi hanno in Italia fenomeni politici quali il comunismo e il fascismo, completamente estranei alla democrazia americana. Inoltre questo meccanismo tende ad emarginare fuori dal controllo politico forze vitali e anche proporzionalmente rilevanti ma non in grado di – o intenzionate ad –  apparentarsi con altre forze. Ci si ritroverebbe in condizione di esiliare alcune voci autorevoli al di fuori delle aule parlamentari a causa non della loro reale ininfluenza ma per una strategia di appiattimento del dibattito politico.
D’altra parte un bipolarismo “di coalizioni”, con partiti minori che hanno rappresentanza grazie al successo di gruppo, comporta la ricca instabilità dei governi della sinistra di questo inizio di secolo. Insomma, non risolve affatto i problemi del paese perché affida un sistema tecnicamente bipolare nelle mani di una costellazione di piccole formazioni che “tengono per le palle” i partiti maggiori.

Da questo, ritengo che l’Italia non sia posto per il bipolarismo. Dopotutto non credo neppure che l’assetto istituzionale del paese sia impostato per il bipolarismo e, francamente, non vedo motivo di andare a modificare equilibri istituzionali – contrappesi, soprattutto – ora ben bilanciati e già messi alla prova in questi anni difficili; se l’Italia ha ancora speranza di rimanere una democrazia e non una dittatura mediatica è merito dei Padri Costituenti che ci diedero un testo memore e figlio dell’esperienza fascista.
In quest’ottica, condivido appieno le critiche al Porcellum di Calderoli: non spetta al popolo esprimersi circa il Presidente del Consiglio dei Ministri! Non per cattiveria o scarso spirito di democrazia, intendiamoci; tutt’altro. Credo che il popolo sovrano abbia diritto a esprimersi riguardo le più alte funzioni dello stato.
Appunto.
L’Italia è una repubblica parlamentare e il sistema elettorale deve sostenere questo dettame costituzionale; giusto è che il popolo si esprima circa la rappresentanza parlamentare. La guida del governo – che al parlamento sottostà – è situazione di altro genere e, nel mio modo di vedere, secondaria rispetto al realizzarsi della sovranità popolare nell’elezione del Parlamento. Colui che guida l’esecutivo sarà scelto dopo, in base all’esito delle elezioni e a come le forze parlamentari così elette riusciranno ad accordarsi.
Non trovo affatto sminuente che tali accordi avvengano dopo le elezioni, finché tali accordi sono compiuti nell’ottica del programma che il popolo ha votato; mi affido, al riguardo, alla capacità dell’elettore di non votare nuovamente una formazione politica che cambia idea dopo le elezioni per convenienza e non per ideale. Certo, l’esperienza berlusconiana mi suggerisce che sopravvaluto la maturità democratica degli italiani… ma voglio crederci. la democrazia, in fondo, si basa proprio su questo sottile gioco tra elettore ed eletto: io mi fido di te ma se mi tradisci e mi hai mentito, la prossima volta perdi il posto.

Apprezzo ovviamente i sistemi bipolari e sono attratto dall’uninominale, anche se lo bilancerei un po’ con il sistema del doppio turno, in modo che il ballottaggio stemperi l’assestamento strettamente bipolare, consentendo successi quantomeno in circoscrizioni non minoritarie l’emergere di forze terze (o quarte) rispetto ai due protagonisti principali.
Forse, come spesso accade in Italia, l’ideale può essere una via di mezzo; un sistema che consenta rappresentanza anche a partiti medio piccoli (mesi fa si parlava di diritto di tribuna), una buona assegnazione per via maggioritaria a doppio turno di seggi e un mantenimento di quote puramente proporzionali, semmai con soglia di sbarramento.
Non è una proposta precisa, ci mancherebbe: me ne mancano le competenze tecniche. Eppure non mi dispiacerebbe e sarebbe anche in linea con gli esiti referendari in materia.

In definitiva, all’idea del bipolarismo come unica via percorribile, ribatto con la proposizione di un proporzionale che garantisca rappresentanza, “sporcato” da un maggioritario uninominale che garantisca una maggior stabilità delle formazioni governative e la crescita di due/tre partiti di maggior peso, capaci di calamitare le attenzioni degli elettori sui loro candidati nel secondo turno, senza monopolizzare la discussione politica a ogni livello, appiattendola.
Comunque sia, anima della democrazia è il confronto, il dialogo e il dibattito. ascoltandosi a vicenda chissà che, prima o poi, l’idea buona davvero non venga fuori.

 
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Pubblicato da su 3 giugno 2011 in Politica

 

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Vittime si, ma solo di parte


Da queste parti è emerso un ampio e sterile dibattito circa le vittime della Guerra di Liberazione e dell’immediato dopoguerra, scatenato da un’iniziativa revisionista (per davvero revisionista) della Consulta Provinciale che, per un concorso a tema storico, ha inserito tra i possibili argomento quello dell’omicidio di una ragazzina savonese da parte dei “partigiani” locali. Le fonti indicate nel bando per approfondire l’argomento sono neutrali e valide quanto un parere del Nano sul giornalismo di Santoro.

Discutendone un po’ in giro, ho constato che manca completamente l’interesse verso le persone che in quei tempi veramente tristi e difficili hanno perso la vita. A nessuno di coloro che affrontano la situazione in pubblico pare interessare veramente la tragedia di una vita spezzata: tutti sono intenzionati a veicolare un messaggio politico, a trarre vantaggio per il loro partito/fazione, a ribadire la violenza della parte “avversa”. Come se la guerra, la Liberazione, il dopoguerra fossero questioni ancora d’oggi e non un passato da studiare, tenere a memoria, non dimenticare e… mai imitare!
Ci si ritrova così ad assistere a buffe manifestazioni di parte: le vittime sono elencate sempre per appartenenza: trovare un elenco degli eccidi e della violenza di quegli anni è pressoché impossibile perché nessuno si preoccupa di presentare tutte le vittime sullo stesso piano. E’ possibile leggere completi elenchi delle barbarie naziste o accorati memoriali delle stragi partigiane, ovviamente, ma nessuno tratta organicamente la violenza locale nel suo complesso e, soprattutto, pochissimi lo fanno con ottica di analisi storica. Le fonti citate – in realtà citate quasi mai! – sono di parte, inaffidabili o inconsistenti; nonostante accorate dichiarazioni di neutralità, colui o colei che scrive appare palesemente di parte, interessato a commemorare solo una parte dei defunti e, soprattutto, chiaramente mosso dall’intenzione di strumentalizzare tale violenza a scopi politici.
Insomma, ho letto cose incredibili. Dai leghisti che si rifanno ai valori cristiani nel ricordare le vittime (o sei leghista, o sei cristiano: delle due, l’una) allo “storico partigiano” che giustifica ogni singolo omicidio “rosso” (il suono delle unghie sul vetro era insopportabile), la collezione è abbastanza completa da poterne fare trattati socio-politici. In realtà, non avessi già depositato il titolo della tesi, farei un pensiero sull’argomento del metodo della ricerca storica post-bellica. Me lo terrò per le prossime occasioni.

La trattazione storica dei fatti, peraltro, lascia abbastanza a desiderare. Ad esempio, nel ricordare Giuseppina Ghersi – che subì un trattamento veramente condannabile – ci si dimentica sistematicamente di ricordare che era una delatrice e che fece uccidere 13 partigiani con le sue soffiate. Dei partigiani si dimentica spesso la brutalità verso la popolazione, soprattutto quando non li sosteneva ed era quindi considerata a prescindere fascista e si tende a rimuovere il buon numero di imbucati che, subito dopo il 25 aprile, senza aver mai partecipato a nessuna operazione partigiana, si fregiarono del titolo solo per condurre vendette personali, o economiche, verso nemici mirati.
Ancor peggio, nessuno si occupa di presentare tali vittime nella complessità dei fatti della guerra e, ancor più, del dopoguerra. Se da una parte si trovava appoggio al regime, indifferenza, paura dei “rossi” (come se i partigiani fossero stati tutti comunisti bolscevichi…), dall’altra c’era una lotta per l’affermazione della libertà e della democrazia, soprattutto l’intenzione di ribellarsi a un regime che da vent’anni schiacciava l’Italia nella povertà e nella violenza, fisica e psicologica. E nessuno ricorda – argomento di attualità – che le bande partigiane (quelle vere, intendo) erano belligeranti riconosciuti e regolari, i repubblichini di Salò no, perché i primi rappresentavano, attraverso le connessioni CLN-Governo, l’Italia, i secondi una repubblica irregolare sotto controllo straniero e, secondo il diritto internazionale, inesistente.
Questo non ne giustifica le successive vendette, umanamente, ma dare un contesto storico permette di capire molto meglio la situazione. E uno storico, soprattutto, evita di fornire giudizi morali.

Al di là dello storico, le vittime sono perlopiù tutte uguali; certo, alcuni “partigiani” erano persone spregevoli che approfittarono della posizione di vincitori, nel mio quartiere – pur rosso – questa memoria è rimasta. D’altra parte, molti gerarchi anche di piccola lega s’erano arricchiti durante il regime calpestando famiglie altrui – ricordate l’olio di ricino – e, pur non accettando personalmente l’uso della violenza, si son ritrovati nel dopoguerra a raccogliere quel che avevano seminato. L’errore sta nel riportare ad oggi tale dibattito: nella nostra dimensione temporale non ha alcun significato perché, reduci a parte, non abbiamo vissuto quel tratto storico e manchiamo quindi degli strumenti oggettivi per comprendere i meccanismi psicologici e sociali che condussero a certi comportamenti.
Credo che sia fondamentale mantenere vivo il ricordo della Resistenza come ampio movimento – trasversale a quelli che saranno poi i partiti democratici della Costituente e della Repubblica – che affiancò le operazioni militari alleate di riconquista dell’Italia: per noi fu veramente una liberazione da una dittatura folle e inumana.
D’altra parte, questo non deve coprire le ingiustizie e i soprusi dei vincitori sui vinti; anzi, ancor di più vanno condannate perché, se si fosse superata una certa soglia, avrebbero potuto giungere anche a far concludere che i “liberatori” non sono stati migliori deifascisti, esattamente come accadde nel regime iugoslavo di Tito. Se ti proponi come fautore di una politica autoritaria, ci si aspetta un comportamento violento e disumano: se ti presenti come difensore della libertà e restauratore della democrazia, non si ammettono deroghe.

Infine, le vittime, che meriterebbero il primo posto, al di là del loro colore. Certo, c’era una guerra: si soffre per ogni vita spezzata ma, da storico, è necessario ammettere che c’era un tasso fisiologico di decessi. Da essere umano, inoltre, mi trovo seriamente in difficoltà a compiangere – al di là della pietà cristiana dovuta a tutti, anche a Stalin o Hitler – persone che collaborarono con il regime fascista, arrivando anche a denunciare persone care e vicine, persone che usarono il regime o le brigate partigiane come strumento di potere personale e di sopruso sui loro rivali personali. I secondi li trovo meno giustificati dei primi, a dirla tutta, anche se comprendo l’odio contenuto per vent’anni ed esploso dopo il successo democratico.
Resta una pletora di persone uccise e prive di colore, che giacciono sullo sfondo e che sono ricordate solo come strumento politico. Loro le vere vittime degli eccessi, da una parte e dall’altra. Loro, veramente, andrebbero ricordati al di sopra delle atrocità: certo, alcuni furono briganti e altri tristi collaborazionisti, ma rappresentano quella comune e varia umanità di cui tutti facciamo parte e che ci ricorda che, forse, in quel momento, anche noi avremmo dovuto schierarci, decidere da che parte stare, pur rimanendo perlopiù in una situazione di normalità. Non mi piace, in definitiva, la loro commemorazione strumentale o la commemorazione “parziale”: o meglio, non la trovo sempre e comunque corretta nei loro confronti. C’è modo e modo di discutere di certi temi…
La memoria dei defunti, per essere sincera, non deve avere partigianerie di sorta. Continuare a sentir parlare di vittime “fasciste” o “partigiane” ne svilisce il ricordo e il sacrificio. Un conto è trattare storicamente, scientificamente, le stragi e gli eccidi – e lì la suddivisione ha forza di definizione storica – un conto è voler ricordare delle vite spezzate. Queste vite, parte della storia, non hanno granché colore politico, se non quello del sangue.

 
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Pubblicato da su 2 giugno 2011 in Politica, Teoria

 

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Letture (due)


Si appresta la decisione riguardo l’esame di storia contemporanea; non è facile decidere cosa leggere all’interno della miriade di libri che il professore ha inserito nel programma, eppure devo farlo.
Un solo libro per quel modulo, un solo approfondimento tra mille che mi interesserebbero.
Un solo tema che giungerà all’esame.

Vediamo la lista:

Gibelli A., L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri 2007
Piretto G. P., Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche, Einaudi 2001
De Grazia V., Le donne nel regime fascista, Marsilio 2007
Traverso E., A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Il Mulino 2007
Goetz A., Lo stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e nazionalsocialismo, Einaudi 2007
Peli S., La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi 2004
Fattorini E., Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, Einaudi 2007
Mosse G. L., La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Il Mulino 2007
Menozzi D., Chiesa, pace e guerra nel Novecento, Il Mulino 2008
Bruneteau B., Il secolo dei genocidi, Il Mulino 2006
Romero F., Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Einaudi 2009.
Flores M., De Bernardi A., Il Sessantotto, Il Mulino 2003
Gualtieri R., L’Italia dal 1943 al 1992. DC e PCI nella storia della Repubblica, Carocci 2006
Gibelli A., Berlusconi passato alla storia. L’Italia nell’era della democrazia autoritaria, Donzelli 2011 assieme a  Ginsborg P., Berlusconi. Ambizioni patrimoniali di una democrazia mediatica, Einaudi 2003.

L’analisi dei testi prenderebbe davvero tantissimo tempo e tantissime righe, penso che ve la risparmierò. Però scorrendo la lista è davvero difficile scegliere, almeno per me: moltissimi i libri che sceglierei, moltissimi i libri che leggerei con piacere, moltissimi i temi che vorrei discutere all’esame.
Effettivamente è da un po’ che avverto la necessità di affrontare certi temi – più o meno mi capita per ogni esame che sostengo – e vengo sistematicamente disatteso da un esame troppo celere. Certo, per la mia media torna comodo, non mi lamento. Però mi sembra quasi di buttare del tempo dedicando magari un mese a un esame per vederlo risolversi in dieci minuti di conversazione – anche superficiale – lasciando nella borsa il 98% dei contenuti che mi sarebbe interessato discutere e su cui avrei voluto sentire un altro parere. Certo, ci sono eccezioni… ci mancherebbe.

Torniamo al tema del giorno: devo scegliere un libro. Quale?
In testa alla lista c’è Mosse: è bravo, scrive bene e il tema è molto interessante. Non disdegnerei nemmeno Traverso, Goetz, Peli, Menozzi o Fattorini. Il rapporto Chiesa/Fascismo è un boccone amaro per ogni cristiano mentre la Resistenza è argomento da sollevare e da ricordare, perché non cada dimenticata (o non sia vittima di bieco revisionismo). Bruneteau, Romero e Gualtiero non sarebbero male: guerra fredda, genocidi e storia politica (DC-PCI) sono indubbiamente interessanti. Altrettanto avvincenti i testi sullo Psiconano, di Gibelli e Ginsborg. Ma lì cadiamo nell’attualità e nella Resistenza…

Si nota che la lista è folta, insomma. Mosse resta in testa ma ho tempo fino a giovedì prossimo per decidere. Voi cosa ne pensate? Cosa leggereste? Cosa mettereste sul banco dell’esame per discuterne con il professore?
Avanti, non siate avari con i consigli!

 
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Pubblicato da su 5 Maggio 2011 in Diari, Libri, Sproloqui

 

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