Da queste parti è emerso un ampio e sterile dibattito circa le vittime della Guerra di Liberazione e dell’immediato dopoguerra, scatenato da un’iniziativa revisionista (per davvero revisionista) della Consulta Provinciale che, per un concorso a tema storico, ha inserito tra i possibili argomento quello dell’omicidio di una ragazzina savonese da parte dei “partigiani” locali. Le fonti indicate nel bando per approfondire l’argomento sono neutrali e valide quanto un parere del Nano sul giornalismo di Santoro.
Discutendone un po’ in giro, ho constato che manca completamente l’interesse verso le persone che in quei tempi veramente tristi e difficili hanno perso la vita. A nessuno di coloro che affrontano la situazione in pubblico pare interessare veramente la tragedia di una vita spezzata: tutti sono intenzionati a veicolare un messaggio politico, a trarre vantaggio per il loro partito/fazione, a ribadire la violenza della parte “avversa”. Come se la guerra, la Liberazione, il dopoguerra fossero questioni ancora d’oggi e non un passato da studiare, tenere a memoria, non dimenticare e… mai imitare!
Ci si ritrova così ad assistere a buffe manifestazioni di parte: le vittime sono elencate sempre per appartenenza: trovare un elenco degli eccidi e della violenza di quegli anni è pressoché impossibile perché nessuno si preoccupa di presentare tutte le vittime sullo stesso piano. E’ possibile leggere completi elenchi delle barbarie naziste o accorati memoriali delle stragi partigiane, ovviamente, ma nessuno tratta organicamente la violenza locale nel suo complesso e, soprattutto, pochissimi lo fanno con ottica di analisi storica. Le fonti citate – in realtà citate quasi mai! – sono di parte, inaffidabili o inconsistenti; nonostante accorate dichiarazioni di neutralità, colui o colei che scrive appare palesemente di parte, interessato a commemorare solo una parte dei defunti e, soprattutto, chiaramente mosso dall’intenzione di strumentalizzare tale violenza a scopi politici.
Insomma, ho letto cose incredibili. Dai leghisti che si rifanno ai valori cristiani nel ricordare le vittime (o sei leghista, o sei cristiano: delle due, l’una) allo “storico partigiano” che giustifica ogni singolo omicidio “rosso” (il suono delle unghie sul vetro era insopportabile), la collezione è abbastanza completa da poterne fare trattati socio-politici. In realtà, non avessi già depositato il titolo della tesi, farei un pensiero sull’argomento del metodo della ricerca storica post-bellica. Me lo terrò per le prossime occasioni.
La trattazione storica dei fatti, peraltro, lascia abbastanza a desiderare. Ad esempio, nel ricordare Giuseppina Ghersi – che subì un trattamento veramente condannabile – ci si dimentica sistematicamente di ricordare che era una delatrice e che fece uccidere 13 partigiani con le sue soffiate. Dei partigiani si dimentica spesso la brutalità verso la popolazione, soprattutto quando non li sosteneva ed era quindi considerata a prescindere fascista e si tende a rimuovere il buon numero di imbucati che, subito dopo il 25 aprile, senza aver mai partecipato a nessuna operazione partigiana, si fregiarono del titolo solo per condurre vendette personali, o economiche, verso nemici mirati.
Ancor peggio, nessuno si occupa di presentare tali vittime nella complessità dei fatti della guerra e, ancor più, del dopoguerra. Se da una parte si trovava appoggio al regime, indifferenza, paura dei “rossi” (come se i partigiani fossero stati tutti comunisti bolscevichi…), dall’altra c’era una lotta per l’affermazione della libertà e della democrazia, soprattutto l’intenzione di ribellarsi a un regime che da vent’anni schiacciava l’Italia nella povertà e nella violenza, fisica e psicologica. E nessuno ricorda – argomento di attualità – che le bande partigiane (quelle vere, intendo) erano belligeranti riconosciuti e regolari, i repubblichini di Salò no, perché i primi rappresentavano, attraverso le connessioni CLN-Governo, l’Italia, i secondi una repubblica irregolare sotto controllo straniero e, secondo il diritto internazionale, inesistente.
Questo non ne giustifica le successive vendette, umanamente, ma dare un contesto storico permette di capire molto meglio la situazione. E uno storico, soprattutto, evita di fornire giudizi morali.
Al di là dello storico, le vittime sono perlopiù tutte uguali; certo, alcuni “partigiani” erano persone spregevoli che approfittarono della posizione di vincitori, nel mio quartiere – pur rosso – questa memoria è rimasta. D’altra parte, molti gerarchi anche di piccola lega s’erano arricchiti durante il regime calpestando famiglie altrui – ricordate l’olio di ricino – e, pur non accettando personalmente l’uso della violenza, si son ritrovati nel dopoguerra a raccogliere quel che avevano seminato. L’errore sta nel riportare ad oggi tale dibattito: nella nostra dimensione temporale non ha alcun significato perché, reduci a parte, non abbiamo vissuto quel tratto storico e manchiamo quindi degli strumenti oggettivi per comprendere i meccanismi psicologici e sociali che condussero a certi comportamenti.
Credo che sia fondamentale mantenere vivo il ricordo della Resistenza come ampio movimento – trasversale a quelli che saranno poi i partiti democratici della Costituente e della Repubblica – che affiancò le operazioni militari alleate di riconquista dell’Italia: per noi fu veramente una liberazione da una dittatura folle e inumana.
D’altra parte, questo non deve coprire le ingiustizie e i soprusi dei vincitori sui vinti; anzi, ancor di più vanno condannate perché, se si fosse superata una certa soglia, avrebbero potuto giungere anche a far concludere che i “liberatori” non sono stati migliori deifascisti, esattamente come accadde nel regime iugoslavo di Tito. Se ti proponi come fautore di una politica autoritaria, ci si aspetta un comportamento violento e disumano: se ti presenti come difensore della libertà e restauratore della democrazia, non si ammettono deroghe.
Infine, le vittime, che meriterebbero il primo posto, al di là del loro colore. Certo, c’era una guerra: si soffre per ogni vita spezzata ma, da storico, è necessario ammettere che c’era un tasso fisiologico di decessi. Da essere umano, inoltre, mi trovo seriamente in difficoltà a compiangere – al di là della pietà cristiana dovuta a tutti, anche a Stalin o Hitler – persone che collaborarono con il regime fascista, arrivando anche a denunciare persone care e vicine, persone che usarono il regime o le brigate partigiane come strumento di potere personale e di sopruso sui loro rivali personali. I secondi li trovo meno giustificati dei primi, a dirla tutta, anche se comprendo l’odio contenuto per vent’anni ed esploso dopo il successo democratico.
Resta una pletora di persone uccise e prive di colore, che giacciono sullo sfondo e che sono ricordate solo come strumento politico. Loro le vere vittime degli eccessi, da una parte e dall’altra. Loro, veramente, andrebbero ricordati al di sopra delle atrocità: certo, alcuni furono briganti e altri tristi collaborazionisti, ma rappresentano quella comune e varia umanità di cui tutti facciamo parte e che ci ricorda che, forse, in quel momento, anche noi avremmo dovuto schierarci, decidere da che parte stare, pur rimanendo perlopiù in una situazione di normalità. Non mi piace, in definitiva, la loro commemorazione strumentale o la commemorazione “parziale”: o meglio, non la trovo sempre e comunque corretta nei loro confronti. C’è modo e modo di discutere di certi temi…
La memoria dei defunti, per essere sincera, non deve avere partigianerie di sorta. Continuare a sentir parlare di vittime “fasciste” o “partigiane” ne svilisce il ricordo e il sacrificio. Un conto è trattare storicamente, scientificamente, le stragi e gli eccidi – e lì la suddivisione ha forza di definizione storica – un conto è voler ricordare delle vite spezzate. Queste vite, parte della storia, non hanno granché colore politico, se non quello del sangue.
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