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Ti abbiamo aspettato a lungo: benvenuto Francesco


Jorge Mario Bergoglio era “the road not taken” del 2005 ed era l’inconfessabile speranza di chi pregava per un papato che svoltasse rispetto ad alcuni comportamenti della Chiesa. Inconfessabile e inconfessata, perché io stesso – pur annoverandolo tra i papabili – lo definivo “ormai troppo anziano” per essere eletto al Soglio pontificio. Puntai su di lui otto anni fa ma, come tutti sappiamo e come tutti prevedevano, uscì Ratzinger.
Ieri abbiamo svoltato.

Ieri sera mi sono veramente commosso. Ancora oggi, rivedendo le immagini, quasi le lacrime sgorgavano sulle parole di Tauran e, poi, su quelle più semplici e diretta di Francesco.
Ho colto il miracolo che era avvenuto quando il protodiacono ha detto “Georgium Marium”: poteva essere solo Bergoglio. Un brivido ha attraversato la mia schiena, un sorriso, lo sguardo stupito. E un sussurro: “Bergoglio. Hanno eletto Bergoglio”. Non lo credevo possibile, non stando a tutto quanto si era sentito e a quanto credevo potesse accadere in Conclave, con ben altri nomi schierati tra i favoriti. Eppure, qualcosa là è accaduto e la mia commozione era vera e reale, prima ancora di conoscere davvero questo papa, solo sulla scorta di quanto negli anni avevo letto su di lui. Quando al nome e al cognome s’è aggiunto anche il nome pontificale, quasi stavo davvero piangendo. Francesco. Il santo di Assisi, una dichiarazione programmatica di povertà, semplicità e apostolato che sembrava impossibile: auspicata, certo, ma non possibile.

L’immensità della serata è stata chiara quando Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco, si è affacciato sulla piazza. Ha colpito la sua semplicità, già dall’abito: niente orpelli, il semplice abito bianco, la stola usata solo per la benedizione. Ha colpito quel silenzio di preghiera chiesto alla piazza e, più ancora, quel silenzio che la piazza ha regalato al Papa, pregando per lui. Hanno colpito come macigni le parole del vescovo di Roma, questo concentrarsi sulla preghiera e sull’incarico di pastore della sua gente. Sul camminare insieme, noi e lui: questo è un invito che noi tutti possiamo accogliere, da cristiani.

Non è giornata per analizzare questo pontificato che inizia e per scrutare nel passato di Bergoglio prete, vescovo e cardinale per capire il futuro. Abbiamo un pastore nuovo e sta lanciando segni splendidi, questo basti. Cammineremo con lui, pronti a sostenerlo quando ne avrà bisogno e pronti a dirgli la nostra opinione se servirà, anche a non concordare con lui dove sarà necessario.

Ora devo solo dire una cosa a papa Bergoglio: “non deluderci”. C’è una Chiesa da ricostruire, siamo pronti a lavorare.
Andiamo.

 
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Pubblicato da su 14 marzo 2013 in Diari, Religione

 

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Bianchi, un papa pastore. Perché no?


Un mio favorito per occupare il soglio di Pietro ce l’ho: Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, costruttore di una realtà pienamente cristiana, pienamente attuale, pienamente conciliare.

So che le probabilità che i cardinali elettori riuniti in conclave indichino un nome esterno al loro consesso sono minime. Eppure erano minime anche le probabilità che un pontefice rinunciasse alla carica: non c’è precedente storico per questo gesto, mentre ce ne sono numerosi di elezioni extraconclave, Celestino V compreso.

Enzo Bianchi si è ritirato a Bose l’8 dicembre 1965, il giorno stesso in cui il Concilio Vaticano II giungeva a conclusione. Una data scelta simbolicamente per dare vita a un’esperienza di pura vita evangelica: Bose è una comunità che si fonda sì sulla tradizione cenobitica di san Paconio e san Basilio ma, soprattutto, è profondamente radicata nel Vangelo. Le sorelle e i fratelli di Bose condividono i beni, la giornata, la preghiera, ispirandosi direttamente al Vangelo come fecero i monaci dei primi secoli della cristianità.

Ad affondare secoli di costumanze stratificate, là a Bose è soprattutto il dialogo ecumenico: la Comunità accoglie cristiani di differenti confessioni, tanto da aver ospitato anche un patriarca ortodosso in pensione, alcuni anni fa, o alcuni pastori protestanti. Il dialogo tra cristiani, nell’arricchimento dovuto al confronto delle reciproche opinioni, è l’elemento che rende Bose un luogo speciale per tutta la cristianità. Tra tante parole e molti proclami di cammino unitario e avvicinamento, in mezzo a documenti e dichiarazioni controfirmate, a Bose si mette in pratica il cammino ecumenico di riavvicinamento della Chiese cristiane: si fa esperienza dove altrove si fa solo teoria.

Il coraggio con cui Enzo Bianchi ha pensato, dato vita e guidato la comunità è a mio parere la cifra specifica di questo personaggio che resterà impresso nei libri di storia della Chiesa, io mi auguro. Bianchi ha accolto il mandato lasciato a tutti dalla Chiesa, rinvigorito e riletto nell’ottica dei segni dei tempi contemporanei dal Concilio, e ne ha fatto la ragione stessa dell’esistenza: questo progetto è per lui il suo modo di dimostrare e applicare l’amore per Dio che ciascun cristiano è chiamato a mettere in pratica.

Questo coraggio nell’innovare la forma lasciando intatta la sostanza, anzi rinforzandola e rinvigorendola con l’approccio a nuovi strumenti è ciò che rende ai miei occhi Enzo Bianchi l’uomo ideale per guidare la Chiesa cattolica nei prossimi anni.
Potremmo anche aggiungere la sua estraneità ai meccanismi di curia, la sua purezza politica, l’età idonea per un pontificato non breve e neppure lunghissimo e molti altri elementi: tuttavia non credo che siano questi gli elementi determinanti per la scelta di un pontefice, non oggi. Abbiamo avuto un papa comunicatore e un papa teologo: oggi ci serve un papa pastore. Un pastore che cammini assieme al suo gregge, che ne abbia sperimentato le difficoltà e le sofferenze, che sappia rafforzare la Chiesa aprendola al dialogo con l’intera cristianità: se vogliamo essere pienamente cattolici non possiamo proseguire nell’isolamento e nell’autarchia. È il comandamento d’amore stesso che ci chiede di accostarci ai nostri fratelli cristiani e porci sulla strada del Padre assieme a loro. Enzo Bianchi può fare questo.

Non credo che, dopo la fumata bianca, il cardinale Tauran annuncerà il nome di Enzo Bianchi come futuro pontefice della Chiesa cattolica. Eppure un po’, in fondo al cuore, ci spero: se i 117 cardinali scegliessero un nome imprevisto, porterebbero a compimento un cambiamento epocale iniziato da Benedetto XVI, cogliendo l’occasione per rinnovare la Chiesa. Si tratterebbe, dopotutto, di seguire i consigli dell’attuale pontefice: non usare la Chiesa per il potere ma porla al servizio dell’umanità, perché essa segua il Padre. Tra molti nomi fatti in questi giorni, nessuno mi lascia così speranzoso per il futuro della nostra Chiesa come quello di Enzo Bianchi.

 
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Pubblicato da su 19 febbraio 2013 in Diari, Il Concilio, Religione, Sproloqui

 

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Lo Spirito non è un burattinaio: il conclave e il libero arbitrio


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Leggendo e parlando in questi complicati giorni che hanno seguito il rivoluzionario annuncio di Benedetto XVI, mi sono trovato anche a discutere della successione all’attuale papa e delle caratteristiche dei papabili. Non pochi, riferendosi al conclave incipiente, hanno pronunciato frasi sintetizzabili così: “il papa lo sceglie lo Spirito Santo, confidiamo in lui”.
C’è moltissima inesattezza in questa opinione, che suona come un abbandono al destino e non un affidarsi all’azione dello Spirito. Difetta di fede, in fondo. 

I cardinali non sono burattini e il conclave non è infallibile. Sono due punti saldi ai quali non possiamo rinunciare, pena problemi rilevanti per la Chiesa e per la nostra fede.
I cardinali – principi della Chiesa – sono esseri umani, quindi godono del pieno libero arbitrio in ogni loro scelta. Lo Spirito non è un grande burattinaio che pilota i voti e non stabilisce chi voterà chi: ispira le anime, mostra una via, parla nei cuori e nelle coscienze di tutti noi e, ovviamente, in quelle dei cardinali, tanto più in momenti così delicati per il cristianesimo. Ma i cardinali restano esseri umani come noi. Pregano per discernere e per comprendere quale sia la via indicata loro dallo Spirito; lo faranno in particolar modo prima del conclave, per poter compiere la scelta migliore per la Chiesa, ma questo non ci assicura che accolgano davvero la guida dello Spirito. I cardinali sono esseri umani: hanno debolezze, difetti, sentimenti tipicamente umani. Duellano tra loro per questioni prettamente secolari – non credo che dirlo costituisca sacrilegio, anzi: dobbiamo prenderne coscienza – sono a volte mossi dall’invidia, dalla brama di potere, dal denaro; subiscono pressioni esterne e sbagliano in buona fede. Quante volte nei secoli sant’uomini avranno agito pensando di fare il bene della Chiesa e, invece, pilotandola lontana delle sponde?

Da questo otteniamo ovviamente la seconda asserzione: non c’è garanzia di infallibilità per il Conclave. I cardinali sono completamente liberi nel dare il loro voto. Certo, pregheranno per ricevere il dono del discernimento dallo Spirito. Certo, lo Spirito donerà loro la sua guida. Non certo, invece, è che questo dono sia accolto.
La tradizione stessa della Chiesa non ci parla mai di “infallibilità” per il conclave; sappiamo che il papa può effettuare pronunciamenti infallibili, sappiamo che la Chiesa nella sua collegialità gode di una certa infallibilità ma nulla si dice del conclave. E poi non serve certo discuterne teologicamente: il Dio di noi cristiani non è un cospiratore, non agisce dietro le quinte come un regista occulto. Semmai è un suggeritore, un amico che ci consiglia come mandare avanti questa commedia, senza mai obbligarci a seguire quello che dice. La scelta di seguirlo, alla fine, è sempre nostra.

Nulla ci assicura che il papa eletto dal conclave sia scelto da Dio, il migliore possibile o anche solo idoneo al ruolo. San Vincenzo Pallotti diceva: «Alcuni papi Dio li vuole, alcuni li permette, altri li tollera». Abbiamo un lungo elenco di papi non idonei alla Chiesa, ai loro tempi e alle sfide che si sono trovati ad affrontare, papi che hanno recato alla Chiesa più danni che benefici. Ma anche questo fa parte del segreto incomprensibile dell’Amore: Dio ci ha donato la libertà perché ci ama e questa libertà è tale da consentirci di sbagliare e anche di rifiutarlo. Possiamo pregare perché i cardinali sappiano discernere la guida dello Spirito nella loro scelta imminente ma non possiamo essere certi che essa sia guidata dalla fede e non dal denaro, dal potere, dai vizi umani o, semplicemente, dall’errore involontario di quello che è e rimane un comune fratello. Per questo preghiamo: perché ci fidiamo – abbiamo fede. E perché sappiamo che siamo amati: ma, come sempre, il destino dell’uomo è nelle sue mani, nella sua capacità di accogliere l’amore di Dio.

 
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Pubblicato da su 13 febbraio 2013 in Religione, Sproloqui

 

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Dal Concilio alla Chiesa


Una mattina il cardinale Ottaviani si svegliò tardi. Chiamò un taxi: “Portami in fretta al Concilio”. Salito in auto, si riaddormentò.Quando finalmente si destò scoprì con suo grande stupore di trovarsi in aperta campagna. “Ma dove mi porti?”. Il taxista: “Al Concilio di Trento. Dove se no?”

Incontrare monsignor Bettazzi, un frammento della storia conciliare, possiede un fascino difficile da descrivere. E poi le occasioni di sentir parlare padri conciliari si fa sempre più rara, ancor meno se vogliamo voci che di quel Concilio hanno abbracciato appieno la portata innovatrice.
La rivoluzione copernicana della Gaudium et spesnon l’umanità per la Chiesa, ma la Chiesa per l’umanità – e quella della Lumen gentiumnon i fedeli per la gerarchia, ma la gerarchia per i fedeli – stentano ad affermarsi. L’ha detto chiaramente Bettazzi, raccontando ai savonesi il suo pensiero sul Concilio. E possiamo riassumerlo così: alcuni si sono ancorati alla Tradizione, dimenticando però che la Tradizione non è non cambiare nulla del passato

La Gaudium et spes, che evoca le possibilità e le speranze per il futuro, invita tutti i cristiani a essere cittadini migliori. Chi si fa corrompere o chi corrompe è lontano dall’essere cristiano quanto chi abortisce: questo perché l’elemento centrale, l’attuazione del comandamento di amore fraterno, del cristianesimo è la solidarietà. Solidarietà verso il debole, quindi verso la vita che nasce; solidarietà verso il prossimo, quindi verso l’intera società. Verso gli altri.

Dobbiamo recuperare molto dello spirito del Concilio, facendoci guidare dallo Spirito. La “pastoralità” non è autorizzazione a non concordare: scopo del Concilio è spiegare come la dogmatica deve essere applicata nella vita quotidiana della Chiesa e del cristiano. In quest’ottica, il Concilio non può essere un “forse” ma deve avere tutta la forza del vincolo di adesione – pur critica – alla Chiesa.
Male che l’opera del Concilio sia stata rallentata e, in certi casi, fermata. Male che molte intuizioni – come il Patto delle Catacombe – siano rimaste parole o carta. Oggi la Chiesa è chiamata a testimoniare con l’azione, non a predicare con le parole. Necessitiamo più che mai di una Chiesa povera, umile, imitazione di Cristo. Che era Re, certo – non possiamo dimenticarlo oggi – ma era una Re che si è svelato nel momento di salire sulla croce, quando s’è fatto servo dell’umanità intera. Non certo un Re di ori, diamanti e conti svizzeri; non un Re di nobiltà di sangue e di porporati. Un Re nato da falegnami, circondato da pastori, predicatore fra pescatori.
Quella è la dignità della Chiesa che le parole di monsignr Bettazzi hanno richiamato nella mia mente e nel mio cuore.

La chiamata che da questo Concilio arriva direttamente a noi laici segue questo filone di pensieri. Dobbiamo essere noi a prendere impegno in prima persone all’interno della Chiesa.
Credo che la Sacrosanctum concilium indichi una via da seguire. La costituzione conciliare chiarisce un punto che era un po’ stato trascurato con il passare del tempo – ma che è sempre stato chiaro nella teoria e nella teologia: l’eucarestia la celebra l’assemblea, il presbitero presiede “soltanto”.
Credo che sia lo spirito giusto con cui affrontare il futuro della Chiesa. Non più una Chiesa fatta di gerarchia e di consacrati, usufruibile dal fedele, ma una chiesa di popolo, dove il laico opera attivamente, nell’arricchimento reciproco delle vocazioni di ciascuno. C’è posto per tutti, c’è un ruolo per tutti.
E così anche nei vertici: non un Sinodo modellato dalla Curia ma un Sinodo che, guidato dal papa, sia traino per la Chiesa, con una Curia che si faccia carico dell’attuazione, con spirito di servizio.

In definitiva c’è bisogno che ci rimbocchiamo le maniche. Se ci teniamo alla Chiesa, tocca a noi sporcarci le mani: testimonianza, annuncio, accoglienza non possono gravare solo sulle spalle dei presbiteri e dell’episcopato. Tocca al laicato, ora, agire in prima persona. Ovunque.
Dobbiamo riformarla dal basso questa Chiesa, portare le istanze fino a vertice, far sentire tutta la distanza che c’è tra il popolo di Dio e molti prelati che hanno perso la bussola e si sono allontanati dal loro gregge. “Siamo qui, guidateci verso Cristo”, dobbiamo dire ai nostri pastori.

 
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Pubblicato da su 25 novembre 2012 in Il Concilio, Religione

 

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La Chiesa, i tempi e la bussola smarrita


Nichi Vendola sulla tomba di MartiniDovendomi occupare di politica in sostegno ai comitati per le primarie della sinistra per Nichi Vendola, è inevitabile che mi ponga domande riguardanti la natura e le specifiche di questo mio impegno, il partito che guida Vendola e l’insegnamento della Chiesa.
Sicuramente Vendola, che pur è cattolico, ha posizioni spesso in contrasto con quelle ufficiali della Chiesa, soprattutto quando si tratta di temi “etici” (come se non sfruttare i propri dipendenti non fosse una questione etica…). Vero è che questi stessi temi sono trattati a tutti i livelli della Chiesa e che, come ben sappiamo, il credente di base non sempre condivide le conclusioni a cui giungono i vescovi, oggi spesso distanti dal “sentire” del popolo. Vero è che anche la Chiesa su certi temi – omosessualità, eutanasia, aborto – si è espressa con fermezza e chiarezza da tempo.
Proprio nell’analizzare la coerenza delle mie scelte – vendoliano e cattolico, quadro Agesci e portavoce del comitato savonese per Nichi – sono sorte delle domande proprio su questo, che mi hanno spinto a riflettere sulla Chiesa, sulla sua missione e sull’attuale “stato dell’annuncio”, a cinquant’anni dal Concilio. Racconto allora le mie riflessioni: non sono conclusioni e non sono definizioni. Sono dubbi e domande, in divenire, perché la situazione mi interroga dal profondo e non credo basti un post e un pomeriggio di ponderazione per dipanare la nebbia.

Mi sono chiesto oggi se la Chiesa non stia concentrando il suo impegno su un solo fronte, scordando altri fronti o, comunque, tralasciandoli. E mi sono anche chiesto se questi “fronti secondari” sono davvero così marginali nel messaggio cristiano.
Essere favorevole ai matrimoni gay rischia di porre in contrasto con la gerarchia ecclesiastica e con il Magistero; tuttavia non lo fa lavorare per una multinazionale che sottopaga i propri dipendenti nelle filippine o che produce armi. Le conferenze episcopali – quando non il Vaticano – si scagliano contro le leggi che consentono unioni civili a prescindere dal genere ma non accusano gli stati di praticare politiche che creano maggior disuguaglianza sociale.
Su alcuni temi la predicazione si ferma a posizioni importanti, su altre pretende il vincolo del credente. Ma davvero è così prioritario impedire l’eutanasia e così di scarso valore lavorare per una miglior distribuzione delle ricchezze sul pianeta? Davvero un tema che riguarda la libertà di coscienza del singolo – libertà di coscienza che la Chiesa, con il Concilio, rispetta – deve occupare più spazio nella definizione del cristiano rispetto all’impegno per migliorare le condizioni di vita di miliardi di persone?

Non potrebbe allora prevalere la sensazione che la Chiesa stia perdendo la bussola, non sappia reagire ai temi che corrono e non riesca a far capire come Gesù Cristo e il Vangelo sono la risposta alle domande della donna e dell’uomo dei nostri tempi? Non lo fa, forse, perché sceglie male le battaglie in cui impegnarsi a fondo.
Credo che il cuore del messaggio cristiano sia l’amore fraterno. Spero, almeno in questo, di essere nel giusto. Parto da questa base, o almeno ci provo, nella mia vita, nella mia azione, anche nel mio schierarmi politicamente. E vedo, per esempio, che le politiche capitalistiche/neo-liberiste sono del tutto antitetiche con un concetto di giustizia sociale che si riferisca all’amore fraterno. Perché la Chiesa non interviene con la stessa forza e le stesse pressioni che impiega su temi scottanti quali l’eutanasia e l’omosessualità, contro il maltrattamento e lo sfruttamento dei lavoratori, contro il lavoro precario, contro lo stupro del Creato e contro l’uso della guerra per la risoluzione dei conflitti internazionali?Il Concilio, bussola per la Chiesa
Lo storico che è in me vede collusione con il potere; il credente cerca una ragione, cerca una bussola, cerca un aiuto e una spiegazione. Perché non riesce del tutto a vedere la Chiesa del Dio dell’Amore in queste scelte. E sa che la Chiesa in cui crede – quella della sua Confessione di Fede – non è la Chiesa “istituzionale” ma quella invisibile, nota solo al Padre. Questa è la risposta che si dà in quest’ora buia.

Prego molto su questi stimoli e queste riflessioni. Prego per capire e prego per avere la forza di cambiare le cose dove non mi sembrano rispondere al Disegno del Padre. Prego per il discernimento e prego per la Chiesa: noi cristiani, illuminati ora dal Concilio, dobbiamo tenere accesa quella candela, prima che si spenga e ci restituisca alle tenebre. Dobbiamo cogliere i segni dei tempi, respirarli e dal loro la Parola e il Padre come orizzonte di realizzazione. O ci estingueremo.

Un inciso polemico, solo uno, concedetemelo: in Italia il principale partito di riferimento dell’area cattolica è guidato da un divorziato risposato. Con figli. Penso possa spiegare molte cose riguardo alla coerenza… ma non mi solleva dalle domande sulla mia coerenza.

 
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Pubblicato da su 16 novembre 2012 in Diari, Il Concilio, Politica, Religione, Sproloqui

 

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Cinquantesimo anno


Giovanni XXIII apre il Concilio Vaticano II

Giovanni XXIII apre il Concilio Vaticano II

Era un giovedì 11 ottobre 1962, un giovedì d’autunno come oggi. Quel giorno si aprivano le speranze situate nei cuori di un miliardo di cristiani. Un gesto coraggioso quello compiuto dal pastore bergamasco, quasi un pretone di campagna asceso al soglio pontificio; incaricato tra le righe dal Conclave di reggere la Chiesa per qualche anno in un pontificato di transizione, Angelo Roncalli seppe leggere quei segni dei tempi che richiedevano una profonda rivisitazione della missione pastorale della Chiesa e dar loro forma con la convocazione del Concilio.
Il pastore cambiò per sempre il corso della nostra storia e dette alla Chiesa gli strumenti per presentarsi con maggior efficacia di fronte alle sfide del XX° secolo.

Cinquant’anni dopo la Chiesa delineata da quel Concilio è ancora lontana dal compiersi. Troppe le paure, troppo rumorose le numericamente piccole resistenze conservatrici, troppo il timore di perdersi nel cambiare pagina.
Siamo ancora troppo spesso una Chiesa immobile, incapace di far vedere all’umanità come la risposta principale sia Cristo. Chi si volta indietro, osservando con bramosia i tempi in cui la Chiesa era padrona delle menti e dei regnanti, perde di vista l’orizzonte storico entro il quale il cristianesimo deve rimanere, soprattutto la Chiesa. Essa è, insieme, la comunità dei credenti e il Corpo di Cristo incarnato nella storia: dimenticando una di queste dimensioni si va incontro allo smarrimento.

Ritornando sull’immobilità e sulla paura, ascoltando i discorsi di chi si dice “tradizionalista”, sembra quasi che nel passato la Chiesa abbia vissuto senza alcuna difficoltà. Eppure, come diceva Giovanni XXIII aprendo il Concilio, “non possiamo tuttavia negare che nella lunga serie di diciannove secoli molti dolori e amarezze hanno oscurato questa storia“. Conosciamo oggi molti dolori, molti errori, molte pecche di questa Chiesa, emerse da quel 1962 a oggi; non dimentichiamo mai gli scandali della pedofilia, coperti da ogni livello ecclesiastico, curia romana compresa. Chi mira alla sola tradizione, facendosi fanatico, dimentica le difficoltà e gli errori, dimentica l’umanità insita nella Chiesa. E dimentica che con il Concilio i passi verso la tradizione apostolica, quella antica di duemila anni, sono stati molto più notevoli che nell’immediato post-concilio tridentino.

Francobollo celebrativo del Concilio Vaticano II

Francobollo celebrativo del Concilio Vaticano II

Il Concilio ha aperto nuove frontiere e qualche spaccatura: d’altronde Cristo “è qui per la rovina e la risurrezione di molti…, segno di contraddizione“. Una contraddizione che impone al cristiano stesso, se egli guarda appieno al mondo che lo circonda, perché il messaggio di salvezza e amore è quanto di più contraddittorio possiamo trovare con l’attuale società.
Eppure il cristiano è chiamato a non fuggirne, anzi: deve operare al suo interno senza mai venir meno al dovere di mostrare Cristo agli altri. Sempre, anche quando la speranza sembra svanire, anche quando non sembra esserci alcuna presenza paterna e fraterna, anche quando nulla ricorda alle nostre menti il Padre.
Contraddittorio anche interno alla Chiesa. Una maggioranza, silente e operosa, dedita a proseguire l’opera del Concilio; una minoranza, rumorosa e molesta, impegnata a smontare lo sguardo ai tempi, a distruggere l’efficacia dell’evangelizzazione, a minare l’annuncio. La Chiesa non è fatta di teologi e cardinali, di prelati timorosi, ma di credenti che si sporcano le mano ogni giorno tra i poveri, gli affamati, i malati, i dimenticati. Come faceva Cristo.
Memori delle Scritture, però, ci ricordiamo che Dio è nella brezza, non nel fuoco, nel terremoto o nel vento.
Quella brezza, ancora, lavora per portare il messaggio cristiano nel XXI° secolo, nonostante le difficoltà.

Delineo, allora, la necessità di lavorare fino in fondo sul mandato conciliare.
Serve un maggior impegno del laicato nella gestione ecclesiastica, a ogni livello. Urge un coinvolgimento di base, come urge un coinvolgimento graduale anche ai più alti livelli. Non c’è alcun bisogno che tutte le cariche della Chiesa siano ricoperte da ecclesiastici – maschi – quando il ruolo presbiterale è ben più importante. Certamente la guida episcopale – il pastore – è fondamentale e insostituibile ma molte svolte possono essere compiute.
Serve un reale confronto con le questioni che riguardano la contemporaneità, a partire dal confronto con i laici, i fratelli cristiani, gli atei, i credenti di altre fedi: fine vita, sessualità, giustizia. Leggere i segni dei tempi, come disse papa Roncalli.
Serve un chiaro impegno sociale della Chiesa, senza mezze vie, senza titubanze, senza intrighi di palazzo. Il cristianesimo deve schierarsi compatto al fianco degli ultimi: bambini, persone senza diritti, disoccupati, malati, donne, perseguitati, carcerati.
Infine, serve un profondo processo di purificazione della Chiesa. Interiore, soprattutto: questioni da affrontare non mancano, modi di fare datati da sostituire neppure.
C’è ancora molta, moltissima strada da fare.

Posso solo dire e sperare, citando Giovanni XXIII: “È appena l’aurora

 
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Pubblicato da su 11 ottobre 2012 in Il Concilio, Religione

 

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Di Enzo Bianchi e della Tradizione


Per una volta riporto un articolo, breve e incisivo, che secondo me merita di essere ben analizzato. E che approvo.
Questo.
Non ho l’onore di conoscere Massimo Faggioli ma apprezzo la sua analisi della questione; dopo mesi passati a leggere deliri on line di soggetti che maledicono Enzo Bianchi, plausibilmente ritenendosi “più cattolici” del priore di Bose, incontrare qualcuno che apprezza il percorso del barbuto quasi-eremita torinese contribuisce a risanare un bell’equilibrio.
Intendiamoci, nessuno è perfetto, tantomeno Bianchi. Avrei da ridire sull’elitarietà di Bose, cresciuta negli ultimi anni di pari passo al prezzo del soggiorno monastico per noi poveri laici affamati di parole di salvezza e riflessioni evangeliche. Se avessi letto tutti i suoi libri, troverei senz’altro passaggi sui quali non concorderei. Ribadiamolo: nessuno è perfetto.
Apprezzo, però, lo sforzo ecumenico di Bianchi e della comunità di Bose, lo spirito profondamente evangelico con il quale affrontano la vita e la comunione, l’essere cristiani e il risalire alla fonte tradizionale senza, per questo, essere conservatori e tradizionalisti. Apprezzo l’idea di cavalcare l’onda d’urto del Concilio Vaticano II, nel tentativo di non farla infrangere contro muraglioni di ignoranza e conservazione fine a se stessa.

Qui dovremmo introdurre una profonda riflessione sulla Chiesa e sul suo futuro. Molti tradizionalisti hanno una visione distorta della Tradizione e ripropongono decisioni vetuste al solo scopo di riproporle, fini a se stesse, senza riflettere sul significato che possedevano quando sono state prese, sulla rottura che comportavano all’epoca, sulla sparizione dei moventi che le hanno prodotte.
Prendiamo la scelta del latino: fu meramente pragmatica e razionale, non certo sacrale o tradizionalista. Nessun testo sacro è stato scritto originalmente in latino, Gesù di certo non parlava latino. Lo parlava, però, l’Impero, in particolare a occidente. Era, quella, una lingua comune, comprensibile a buona parte della popolazione, anche quella meno erudita, quantomeno nei fondamenti. Mentre nascevano le lingue romanze – il volgare – il latino rimaneva la lingua dei dotti ma aveva sufficienti connessioni con il parlato per consentire una comprensione generica a una parte della popolazione non trascurabile. Di contro, celebrare oggi in latino significherebbe escludere dalla comprensione liturgica una amplissima parte della popolazione: e in Italia ancora andrebbe bene, visto che studiamo latino nei licei… (non che il latino del liceo consenta di comprendere appieno le sfumature del testo liturgico, eh!).
A ben vedere, se volessimo seguire questo percorso tradizionale, oggi dovremmo celebrare in inglese, vera lingua comune di tutto l’occidente (cristiano). Si spera, dopotutto, che la percentuale di italiani che comprendono l’inglese cresca con gli anni; non sarebbe un’idea malsana.

L’esempio linguistico può essere riprodotto su moltissimi temi di disquisizione tra conservatori e “modernisti”. Buona parte dei refrattari, infatti, si culla nell’ignoranza delle motivazioni storiche, politiche e contingenti delle scelte conciliari – siamo pur sempre una fede modellata dalle esigenze terrene di un imperatore pagano – e si rifiuta di ammettere che ciò che loro chiamano “Tradizione”in realtà ha sovrascritto usanze precedenti, spesso millenarie, senza alcun motivo teologico ma solo per meglio adattarsi alla riformata struttura che la Chiesa si stava dando a Trento.
Io non ritengo scandalose le decisioni conciliari di Trento, sono frutto del loro tempo e, in qualche modo, lo Spirito ha messo la mano anche lì, non ne dubito. Altrettanto dovrebbe accadere con i conservatori odierni: sono certo che, come a molti non piacquero alcune innovazioni tridentine, così non piacciano a loro alcune innovazioni vaticane. Eppure tutto fa parte dell’evoluzione della Chiesa, inevitabile se vuole rimanere “nel mondo”. Peraltro, molte opzioni non sono novità ma reminiscenze del passato, un passato obliterato dallo sforzo unificatore del Concilio Tridentino. Quell’unità univoca, che aveva un preciso scopo nella realtà storica del XVI° secolo, oggi ha perso il primato, a favore di una maggior aderenza alle esigenze puntuali dei fedeli, mantenendo salda la cattolicità della Chiesa pur nelle diversità, esteriori, dei dettagli.
Lo scopo della Chiesa non è conservarsi immobile nel tempo: fosse così, avremmo già perso la partita ancor prima di iniziarla (e Trento non ha certo conservato!). Semmai lo scopo della Chiesa – che è la comunità dei fedeli, universale e locale – è quello di annunciare il Vangelo: per farlo, deve essere pienamente dentro alla realtà a lei contemporanea o non avrà di che parlare alle donne e agli uomini che incontra.

Credo che Bianchi esegua propriamente questo compito: presente sui giornali e in TV, sa annunciare la Parola con l’efficacia di un predicatore medievale, adattando però il suo agire ai mezzi che il suo tempo gli offre.
Non è un monaco privo di difetti ma di certo è una pietra importante per la Chiesa del futuro. Mi auguro.
Una Chiesa composta da pietre radicalmente diverse da quella di Bianchi rischierebbe di essere una Chiesa traditrice del messaggio originale di Cristo: non certo uno che è venuto a mantenere l’ordine precostituito ma, semmai, a ricordarci che ne deve venire uno nuovo.
E io ci credo.

 
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Pubblicato da su 13 aprile 2012 in Religione, Sproloqui

 

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Non abbiate paura!


Credo sia la parola-chiave di questa Pasqua: lo penso fin da sabato sera, quando quel brano è stato letto durante la veglia e continuo a pensarlo adesso, mentre scrivo. Ci son voluti due giorni per trovare il tempo di mettermi alla tastiera, credo ne sia valsa la pena.

Le parole dell’angelo che accoglie le donne al Sepolcro sono, io credo, un monito e un invito per tutti noi cristiani del XXI secolo. Non possiamo nascondere né nasconderci che è difficile essere cristiani in questo mondo così ampiamente secolarizzato: forse non è mai stato facile essere cristiani, diciamocelo, ma oggi… oggi suona strano alle orecchie di tutti. Credere in Gesù e nel suo Vangelo è fuori da ogni canone: ancor peggio, è fuori moda.

Così le parole dell’angelo parlano anche a noi: così è la Scrittura, sempre contemporanea, sempre odierna, sempre rivolta a chi la ascolta. Forse non lo sarà nella sua versione letterale, certo, ma sa parlare all’umanità in ogni tempo e in ogni luogo con la medesima forza. Sempre ci interroga.

Il messaggio di questa Pasqua, allora, suona come un sostegno a tutti quei cristiani che vivono sotto la costante persecuzione: noi, in Italia, siamo ampiamente fortunati, non rischiamo di perdere la vita per camminare sotto una Croce. Altrove sì: e l’angelo, oggi, si rivolge soprattutto a loro, parla con voce di sostegno per chi è perseguitato per causa Sua.

Parla anche a noi, donne e uomini di un paese occidentale fortemente secolarizzato, ci invita a non rinnegare Cristo – eh si che anche Pietro cadde, di fronte a questo – il nostro credo e ad annunciarlo con forza per il mondo. Ci invita a vivere nel mondo, si, ma secondo Cristo.
Perché il cristiano non può separarsi dal mondo: “siate nel mondo ma non del mondo”. L’ascetismo avrà senza dubbio uno spazio importante nella spiritualità cristiana, ma l’essere attivi – checché ne dica qualsiasi tradizione – è Parola. Dobbiamo annunciare e rimboccarci le maniche: senza turbarci del domani, certo, senza sopravvalutare le questioni “mortali”, ben attenti a che il nostro cammino sia verso la Salvezza. Occhi al cielo, non al terreno: ma attenzione alla pista che percorriamo.

Andiamo, allora, senza timore: ricordiamo chi siamo, non rinneghiamolo. E, soprattutto, niente timore: c’è chi ci accompagna. E pace se la moda non è dalla nostra parte.

 

 
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Pubblicato da su 9 aprile 2012 in Diari, Religione

 

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19 marzo


Oggi è il diciottesimo anniversario dell’omicidio di don Giuseppe Diana, parroco di Casal di Principe ammazzato dalla Camorra per il suo impegno nella lotta alla criminalità organizzata.
“Per amore del mio popolo non tacerò” è il titolo del testo che ne sancì la condanna a morte da parte della camorra locale; è anche uno scritto che racchiude, in poche righe, la profonda realtà della vita civile sottomessa alle organizzazioni criminali, particolarmente in un territorio complesso e storicamente schiavo delle associazioni camorristiche. Ne consiglio la lettura, è rintracciabile con facilità su Wikipedia e veramente tratteggia con poche parole il dolore di una terra non libera, sotto un giogo ingiusto e immorale.

Giuseppe Diana era un sacerdote che, per amore del gregge assegnatoli e della sua stessa terra, non ha taciuto l’urlo di denuncia contro il sopruso e l’ingiustizia. Dovrebbe essere annoverato tra i martiri della Chiesa – ci si sta lavorando – e dovrebbe esser portato a esempio per noi cristiani in materia di impegno sociale. Perché essere cristiani non può essere slegato in alcun modo da “essere legali”. Essere cristiani significa, in primo luogo, rispettare gli altri – amarli – e non c’è amore nel sopruso, nella violenza e nella violazione della convivenza civile.

Credo sia opportuno ricordare don Giuseppe come un eroe contemporaneo, una persona che ha saputo donare la vita perché quella degli altri potesse essere migliore.
Non parlo del martirio – il brutale omicidio di stampo camorristico – ma della scelta di parlare, di non tacere: il dono don Giuseppe l’ha compiuto in quel momento. Anche se la sua storia avesse avuto un diverso epilogo, comunque quel giorno, con quelle parole, il cammino del dono sarebbe stato segnato.

Ci troviamo ancora oggi a combattere contro la criminalità organizzata di stampo mafioso; mentre la lotta prosegue dal basso, i piani alti della società civile orchestrano colpi di mano per semplificare la vita alle associazioni che infettano la nostra vita. Se non è questo il momento per farci sentire, non so quale altro potremmo attendere.
Non serve essere eroi e neppure altruisti per farlo; dobbiamo, però, compiere questo gesto per amore del nostro popolo. Che siamo anche noi stessi, dopotutto.

 
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Pubblicato da su 19 marzo 2012 in Politica, Sproloqui

 

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Suggestioni d’antimafia


Ascoltare ieri don Ciotti in chiusura dell’assemblea regionale dell’AGESCI ha sicuramente caratterizzato la domenica e l’assemblea tutta; una palestra di democrazia associativa è diventata università di cittadinanza e legalità grazie alla presenza di un uomo che ha saputo dare nuovo vigore a questi concetti per tutti gli italiani.
Credo che un racconto sarebbe solo uno sterile resoconto, privo della forza dei messaggi lanciati da don Ciotti durante le due ore di vera sospensione temporale. Allora lascerò solo alcune suggestioni, alcune frasi che hanno caratterizzato la giornata e che, a mio modo di vedere, rappresentano il cuore del messaggio depositato nelle nostre menti ieri da don Luigi.

Ho due grandi riferimenti: il Vangelo e la Costituzione
Un’apertura che ha subito richiesto un forte applauso. Da qualunque prete ci si aspetta il riferimento al Vangelo – da qualunque cristiano, ci mancherebbe altro – ma solamente quelli speciali sanno parlare del mondo reale in cui viviamo. Quell’appello alla Costituzione prima, alle dichiarazioni dei diritti umani poi, ha tagliato l’intero intervento di don Luigi. Perché se il fulcro della società è la Costituzione, allora da questa ne discendono le responsabilità che ciascuno di noi deve assumersi per renderla non carta e teoria, ma vita e realtà.

“Ma cosa vuoi tu, montanaro?
Il racconto diretto, personale, della difficoltà del Luigi bambino, il disprezzo e il razzismo nell’espressione che, declinata con altre parole, ferisce la natura e l’origine del debole. Il debole che, invece, avrebbe bisogno di essere accolto, non scacciato. Un memoriale, a pochi giorni di distanza dalle voci sulla possibiltà che il 2012 non abbia alcun decreto flussi.

AGESCI, agenzia educativa e associazione cattolica di più grande valore
Non certo una marchetta, se in bocca a un uomo del genere. Un riconoscimento, un cammino e un progetto: se molte sono le realtà cristiane di grande forza, se noi AGESCI abbiamo dei meriti, questo deve solo esortarci a essere ancora più vigili, più presenti, più costanti. Più attivi sul nostro territorio, più attenti alle debolezze che ci circondano, meno immersi nel nostro “piccolo universo felice”.

Molti io che fanno un noi
Credo sia lo spirito con cui dobbiamo affrontare non solo la gravissima situazione delle associazioni malavitose ma ogni aspetto della nostra breve vita. Noi scout abbiamo una grande forza, l’abitudine alla comunità e alla condivisione: sfruttiamola, coltiviamola. Allarghiamo la nostra comunità, estendiamo la nostra condivisione: così anche la Chiesa, nella quale viviamo il nostro umile servizio. Non può non essere maestra ed esempio di condivisione e comunità.
Ma per don Ciotti è anche lo spunto e la caratterizzazione del suo impegno, prima con il Gruppo Abele, poi con Libera. È la dimensione con cui costruire i cambiamenti, attraverso la relazione.

Dare un nome a ogni ragazzo, a ogni vittima
Uno dei momento più toccanti del pomeriggio, quando la commozione e il sentire di don Luigi è stato veramente comunicato a tutta l’assemblea.
Non più “i ragazzi della scorta” ma Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Roberto Antiochia, Agostino Catalano, Emanuela Loi  Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina e tutti gli altri, innumerevoli, inenarrabili. Il messaggio forte di don Luigi, accompagnato dal racconto delle parole delle madri di queste vittime, è che tutte le vittime delle mafie devono essere ricordate allo stesso modo: ricordate per nome, ricordate con la stessa dignità.
Sono persone che hanno perso la loro vita durante la lotta, spesso il loro nome è stato infangato – e il ricordo per don Diana è stato toccante – e oggi dobbiamo ricordarlo e ribadirlo più forte.

La mafia dove c’è bellezza e prosperità si instaura
Ci rammenta don Luigi che non dobbiamo abbassare la guardia, ritenerci immuni e distanti. Proprio qui al nord le mafie investono e crescono; il recente scioglimento del consiglio comunale di Bordighera per infiltrazioni mafiose è un segno, lo è ed altrettanto forte la marcia che Libera organizzerà il 21 marzo 2012 proprio a Genova.
Spetta a noi vigilare ed essere presenti; essere scolte, sentinelle fino all’alba, a questo siamo chiamati.

Se la politica è debole, le mafie sono più forti
“La democrazia nel nostro paese è stata pallida, altro che pallida!, le mafie sono più forti”.
Parole coraggiose, critiche importanti a un mondo politico nazionale che sembra sempre più privo di valori e di riferimenti. Peggio, sembra sempre più colluso con le mafie, con la malavita organizzata, con le realtà del malaffare. E se grazie all’illegalità se ne vanno più di 560 miliardi di euro ogni anno, nulla viene compiuto per fermarli: denaro che, anche se recuperato solo parzialmente, coprirebbe ben più di una manovra finanziaria, denaro che sosterrebbe servizi vitali per lunghi periodi. Eppure nulla – o poco – si muove.

Ci lascia un messaggio per domani, don Luigi Ciotti: ci lascia un compito per costruire un mondo “migliore di come l’abbiamo trovato”. Ma quant’è difficile, quant’è dura. Sarà ancora più dura, perché le mafie non si arrendono: eppure spetta a noi, educatori e cittadini da prima linea, farci carico di questo.
C’è uno stendardo da tenere issato, al lavoro!

 
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Pubblicato da su 28 novembre 2011 in Diari, Politica

 

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