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New Wave & Old Style: wainting for fun


La citazione beckettiana era inevitabile, causa mente molto malata. Eppure oggi, mentre ero alla guida nel traffico del lunedì, non ho potuto fare a meno che rianalizzare un po’ la situazione ludica che mi affligge da tempo.

Non farò ampie premesse sul c.d. New Wave, corrente profondamente innovativa del panorama ludico internazionale: da The Forge in poi, l’universo indie ha suscitato riflessioni e fornito spunti teorici a tutti gli appassionati del settore. A molti ha anche cambiato il modo di giocare, ammettiamolo.
Non mi soffermerò neppure sulle teorie; non c’è tempo e non ne ho le capacità. Ho, però, letto abbastanza e mi sono un po’ confrontato sui temi, quindi non parlo “per partito preso”: soprattutto scriverò della mia esperienza, quindi si tratta di opinioni e punti di vista specifici. In quanto tali sono discutibili – perché sono opinioni miei – e dati di fatto – perché l’esperienza personale e i gusti sono miei.

La prima osservazione fondamentale è che, così come sono, i giochi “classici” non funzionano. Senza dover scendere nei dettagli tecnici di ciascuno sistema, il loro regolamento prevede un intervento umano arbitrario (il DM) che può – o deve – sovrastare le regole del gioco. Scontato che un gioco le cui regole siano fatte per essere sistematicamente violate sia fatto male. Scontato anche che assegnare il compito di “far funzionare il gioco” a una sola persona (il DM) sia deleterio, sia per lui sia per i giocatori.
Non è questione di democrazia o di “disturbi sociali” (ho letto cose orribili, al riguardo). Mi baso su un’esperienza tra persone adulte che sanno distinguere il gioco dalla realtà e che sanno mediare i conflitti interni al gruppo: si ottiene questo giocando con persone “sane di mente” e capaci di trovare un buon equilibrio. Si ottiene anche giocando a lungo assieme. E si ottiene anche dividendo le responsabilità – ma ne parleremo dopo.
Il dato di fatto rimane: i giochi classici non funzionano! E dopo anni che li provo, li riprovi, li mischi, li progetti, te ne accorgi anche al tavolo.

Ho fatto un po’ di esperienza con qualche New Wave e ne ho letti più di quanti ne abbia provati: Solipsist, Avventure in Prima Serata, Non cedere al sonno, Esoterroristi sono nel mio carniere, assieme a molte altre letture (Cani nella Vigna, Polaris, Covenant, Schock, La mia vita col padrone, Il gusto del delitto, quantomeno questi). Nessuno di questi mi ha dato granché, dal punto di vista ludico. Certo, serate piacevoli, non c’è dubbio: ma quelle le fornisce la compagnia, non il gioco. Sarebbero state ugualmente piacevoli giocando a Risiko, molto spesso. Mi piace giocare di ruolo, alcuni di questi giochi provati mi hanno dato buone sensazioni ma niente di più. Nessuna perla, nessuna illuminazione, nessun divertimento profondo.
A leggerli – a volte anche a giocarli – ho invece provato una profonda noia, un’enorme frustrazione da limitazione e un’allergia all’intellettualismo malcelato degli autori.
Opinione personale, ci mancherebbe, e pure ingiusta perché mette nell’unico vassoio esperienze molto diverse: ma ai fini di questo post devo correre un po’ per spiegare la mia posizione prima di trarre conclusioni.

Veniamo alla terza osservazione: perché gioco di ruolo?
Perché mi piace lavorare di fantasia, mi piace partecipare a storie intriganti, eroiche, epocali… storie “da romanzo”, le chiamo io. E mi piace farlo in compagnia.
Ho iniziato per questo motivo: e, avendo iniziato con D&D, non potevo che trovare terreno – teoricamente – florido. Quello che cerco nel GdR, quindi, è questo: una buona storia, un sistema che consenta di raccontarla, molta fantasia, azione, divertimento, humor, interpretazione del personaggio, spessore carismatico, storie “di ampio respiro” e via dicendo. Quello che promettono moltissimi giochi classici, in pratica: fatevi un giro sulla quarta di copertina di D&D e capirete cosa intendo.

Dov’è l’ennesimo problema, allora?
I classici non mantengono ciò che promettono!
Ammesso che il sistema matematico regga – cosa rara, eh – rimane l’incoerenza di fondo e l’assegnazione di enormi responsabilità gestionali a una sola persona. Essendo una persona, oltre a sbagliare, ha delle oggettive difficoltà a comprendere i gusti del gruppo, a mediarli, a soddisfare le esigenze di tutti – ammesso che queste esigenze combacino con gli assunti di base del GdR e non è scontato: se al tavolo c’è chi gioca solo per “menar le mani” con il suo ranger, già si è fuori strada – e ne consegue solitamente un fiorire di tensioni e incomprensioni che portano inevitabilmente a rendere non ottimale l’esperienza di gioco.
D’altro versante del monte, però, l’esperienza dei New Wave è, per come ho provato e visto, limitante e limitata. Fanno molto bene una singola cosa – per la quale sono stati progettati – ma a quello si fermano. Sono focalizzati all’estremo, ineludibilmente chiusi su un singolo tema/argomento struttura.
C’è un gioco per menar le mani nei dungeon, uno per narrare tragedie, uno per i “primi contatti” a tema fantascientifico, un altro per le tematiche investigative. Insomma, una pletora di strumenti molto precisi, incapaci di funzionare al di fuori del ristretto campo di azione. Un pregio ma anche un enorme limite oggettivo. Per l’esperienza che cerco io dal GdR è un limite che rischia di essere invalicabile.

Rileggendo quanto scritto, ripensando quanto supposto, c’è una sola conclusione: a me serve un gioco classico – quindi non focalizzato, quindi ampio, quindi capace di mille storie e stili diversi – che però funzioni. Mi serve quello che non c’è: un D&D che mantenga le promesse, un Maghi che non deluda, un Legend of the Five Rings che raggiunga il suo obbiettivo.
L’attuale panorama ludico non sembra prevedere nulla del genere.
La soluzione – tampone ma quantomeno funzionante – risiede nell’adottare la tecnica sviluppata in questi ultimi anni: un gruppo ben affiatato, con gusti analoghi o quantomeno molto compatibili (anche a livello di storie, trame e stili di approccio al gioco) che lavori coordinato. Nessuna centralizzazione del DM, decisioni condivise da tutti per ogni aspetto del gioco, uso dell’intelletto al tavolo e molta pacatezza.
Certo, rimane che il prodotto di partenza non è ottima, l’osservazione dei generatori di giochi indie permane. D’altronde non devo occuparmi di ricerche sociologiche o di sviluppare teorie: devo giocare di ruolo. Se ci riesco, spingendo il regolamento ma coordinandomi con degli amici, non ci vedo nulla di male.
E non ho vie di scampo: a me piace l’idea di D&D, l’intuizione originale di quello stile di gioco. Quello per me è il giocare di ruolo che cerco. Francamente  raccontare la sottomissione e la ribellione a un padrone… beh, no grazie. E neppure mi interessa un gioco interamente focalizzato sui dungeon. Voglio poter massacrare orchi questa sessione, discutere con re, principi e jarl la prossima, indagare sulla sparizione di un bambino quella dopo e attraversare pericolosi antri di streghe e incubi tra un mese. Con lo stesso personaggio, con lo stesso gioco, con lo stesso tavolo.

Finirà che il gioco dovrò scrivermelo.

 
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Pubblicato da su 25 settembre 2012 in Curiosità, Diari, Giochi di Ruolo

 

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Blog, giochi di ruolo e campagne


Abbiamo iniziato una nuova avventura, intesa in senso lato e non in quello specifico: una campagna – oscura e tragica – con un gioco di ruolo fantasy. Pathfinder.
Abbinato alla campagna, è sorto un blog: non avevo voglia di impegnare questo blog con post e commenti strettamente inerenti il gioco, preferisco tenerlo come una finestra più ampia sul cortile del pianeta. Quindi c’è, a fianco dell’Anarchia, La Rovina delle Stelle, un blog interamente dedicato alle sessioni, alla campagna, al mondo di gioco, ai personaggi, ai giocatori… e al quale spero di non contribuire da solo (i blog monolitici possono diventare eccessivamente autoreferenziali).

In questo blog prenderò spunti da un altro prodotto del passato, pur se di brevissima durata: La Discesa Oscura, anch’esso un blog su una campagna di GdR, quella volta di D&D (non che Pathfinder cambi molto, eh… spero che sia meglio, quantomeno il sistema… difficile fare peggio), numerosi spunti anche di teoria del gioco e di… pareri da Game Master.

Insomma, vi tedierò anche con quel blog; ovviamente con quantità minore, ovviamente con temi “a senso unico”, ovviamente rivolti spesso ai giocatori (attendetevi qualche spunto narrativo). Ma i blog raddoppiano, per ora, nell’attesa che si unifichino su una nuova pagina. Svolta non distante. Promesso.

 
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Pubblicato da su 20 gennaio 2012 in Diari, Giochi di Ruolo

 

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Exalted: road to Hell…


Dunque, Exalted.
Nel pieno della stagione di crisi del fantasy-che-piace-a-me, Exalted diventa un gioco ampiamente accettabile e francamente divertente.
Come dissi anni fa, i gusti cambiano… anche in materia di giochi. Cambiano senza stravolgersi, certo, quindi non mi troverete a tessere le lodi della Quarta Edizione di D&D; d’altronde non ho mai detto che Exalted fosse pessimo, solo che poteva essere perfezionabile e che alcune sue sfumature non erano di mio gusto.
Approfitto del giorno di festa per parlare un po’ di Exalted, di come lo vedo io, di come suona secondo gli altri. Di cosa toglierei o modificherei, oltretutto. Materiale ce n’è in abbondanza.

Il primo punto su cui trovo criticabile Exalted è l’atmosfera orientaleggiante da bimbominkiafilonipponico.
Credo che dagli anni ’80 subiamo eccessivamente il fascino della cultura orientale, osannandola e inserendola a forza nella nostra vita. Cartoni giapponesi, oggetti giapponesi, cibo giapponese (o cinese), massime orientali, fumetti (terrificanti!) giapponesi…
La permeabilità della culture è qualcosa che apprezzo e sponsorizzo in prima persona; la esterofilia ignorante no. Il 95% dei fautori di questa moda non ha capito una mazza della mentalità orientale – tant’è che i manga ce li propinano come prodotto infantile, perché da noi i cartoni sono per bambini, salvo tagliare le scene di sesso: indagare e scoprire che si tratta di filmografia per pubblico normalmente adulto richiedeva troppi neuroni – e si bea della conoscenza di dieci parole in giapponese, del cuscino da abbraccio dell’eroina dei manga, della tazza di Dragonball.
Exalted, in quanto americanata, è l’esatto approdo ruolistico di questo processo: estetica filo-orientale (a partire dai caratteri delle pagine) senza l’impegno della comprensione reale del modello sociale che sta alla base della cultura che si vuole imitare. Insomma, l’idea mi fa un certo ribrezzo… il che non aiuta il primo impatto. Se poi il setting si rivela ben poco orientale a leggerlo, ben curato e valido (tra i migliori), l’idea iniziale che se ne fa l’utente casuale che guarda la copertina e sfoglia le pagine è di un prodotto mangoso. Ho subito anch’io quest’effetto, mi ci sono volute settimane di lettura del manuale per riprendermi.
Nel campo, a dire il vero, preferisco allora Qin o Legend of the Five Rings: ampiamente orientali ma quantomeno informati. Se il primo ha un’affidabilità storica ammirevole, il secondo sta al Giappone come D&D sta al medioevo europeo… e va bene così, non pretende altro. Neppure ci prova a essere mangoso: e mi piace per quello.

Partiamo dal presupposto che ho interrotto la visione di 300 dopo mezz’ora perché mi stavo addormentando dalla noia. Dunque trovo eccessiva l’enfasi che viene suggerita dall’interpretazione corrente del gioco.
Non serve fare seimila giravolte per decapitare un nemico: basta un colpo netto, secco e preciso.
Non serve rimbalzare tra gli alberi per compiere un affondo: basta una corsa travolgente.
Trovo questi orpelli scenici decisamente noiosi e superflui: li uso – per questioni meccaniche che spiegherò dopo – ma non migliorano per niente la qualità della mia giocata. A dire il vero, a lungo andare la riducono! Eh si, perché a forza di doversi inventare scene “epiche”, si scade nel ridicolo o nel già visto. Allora la bellezza di un attacco ben descritto, particolarmente spettacolare, va a farsi benedire, perché tutti gli attacchi tendono a quello. Decade l’eccezionalità della scena.
Insomma, un “effetto supersayan”!.

Veniamo a una critica tecnica: trovo assurdo che la mia abilità di narratore influenzi l’abilità in combattimento del mio personaggio. Viola, a mio modo di vedere, l’assioma di base del mio personaggio: lui può cose assolutamente impossibili a me e non serve che io sappia farle.
Per chi non conosce Exalted, un rapido dettaglio: descrivendo l’azione del proprio personaggio, si possono ottenere dei dadi bonus da aggiungere alla pool originale.
Comprendo l’intenzione dello sviluppatore: conferendo un bonus, si esorta anche il giocatore più banale a evitare il classico “lo attacco” e a far fiorire la narrazione. Altra soluzione americana, devo ammettere: da un paese in cui l’evasione fiscale è bassa perché le pene sono alte, questo posso aspettarmelo. Ma prediligo anche qui la via scandinava: l’evasione è bassa perché i servizi elargiti con le tasse funzionano e, soprattutto, perché la popolazione è culturalmente educata a pagarle.
L’analogia è quindi diretta: un sistema che debba ricorrere a simili mezzucci per incrementare la qualità del gioco è un sistema (o un gioco) fatto male. Quantomeno in questo campo, la mia è una critica tassativa: sono un fan assolutista della differenza tra giocatore e personaggio. Posso essere il peggior oratore del mondo ma ho lo stesso diritto di Silvio Berlusconi di interpretare lo zenith più socievole del pianeta. E ho il diritto di tirare il suo stesso numero di dadi, perché il personaggio – giustamente – non sono io. E non è lui.
In fin dei conti, le acrobazie ingabbiano il gioco, costringendo sempre e comunque le persone al tavolo a forzare la descrizione, anche quando non è debitamente ispirata (non raccontiamoci che è possibile evitare, perché quei due dadi extra facilmente aggiungibili sono lì apposta!). Sarebbe meglio per il gioco e per la giocabilità che la descrizione non influenzasse l’azione di gioco: emergerebbe naturale quando ispirata, resterebbe un “lo colpisco con la spada, menando un fendente” quando meno ispirata, colorerebbe veramente il gioco con la sua straordinarietà eccezionale!

Ultima negatività: il sistema di combattimento è veramente macchinoso.
Non è un difetto assoluto, posso passarci sopra perché, a ben vedere, funziona. Sarebbe bello averlo più semplice (Scion in parte lo fa… ma Scion ha un paio di milioni di altri difetti, ben più gravi!), ma si sopravvive anche così. Lo trovo un ostacolo all’immediata fruizione del gioco ma non un danno permanente.
Certo, poter risolvere un combattimento importante in meno di due ore e mezza lo troverei incoraggiante, eh!

A valle di tutto questo, rimango della mia idea generale: meglio D&D (3.5). Molto meglio.
Tuttavia, in assenza di possibilità di giocarlo e nell’ottica che a D&D ho giocato per anni e cambiare un po’ fa solo bene, Exalted è un’ottima esperienza. Rimangono e permangono i suoi problemi – o i miei problemi con lui. Ma nell’equilibrio di un gioco di ruolo sono del tutto sopportabili, anche perché nulla è perfetto.
Oltretutto, unico vero motivo: giocando a Exalted mi diverto. Significa, a mio modo di vedere, che va bene così. Mi diverto anche quando gioco a D&D 4Ed, per la compagnia e per il casino, però. Al limite per la trama. Non per il gioco in sé. Exalted compie già quel “passo in più”: ha i suoi difetti, ma tutti i giochi hanno i loro difetti, anche Mage (lo ammetto a malincuore). Certo, si potessero eliminare alcune cose… soprattutto le acrobazie…

 
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Pubblicato da su 8 dicembre 2011 in Curiosità, Giochi di Ruolo

 

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