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Archivio mensile:dicembre 2011

Buon Natale!


Natale è Natale.
Vi evito le smancerie, non è più l’età per queste cose. Ne approfitto solo per fare gli auguri via web a chi segue il blog… e anche a chi non lo segue.
Sarà un Natale tutto particolare, stretti tra la crisi e le necessità contingenti; come ha detto il papa poco fa, deve essere soprattutto un Natale per la pace. Dopotutto, non celebriamo certo un guerrafondaio ma, che piaccia o meno ai cattoconservatori, celebriamo quell’uomo che ci ha parlato di Amore e Perdono come criteri principali della nostra vita.
E sono estremamente contento di sapere che, ancora oggi, anche nella nostra modernità, c’è qualcuno che abbraccia con coscienza e in età adulta la fede in Cristo: la Chiesa e noi cristiani siamo pieni di difetti, commettiamo errori madornali, siamo colmi di supponenza… ma è grazie a chi si accosta ancora al mistero di Cristo che riusciamo a tirare avanti. Sono sicuro che ci sia una mano “da lassù” a guidare certe cose.

Basta smancerie: festeggiate, mangiata, divertitevi: tornerò a stressarvi con temi ben poco fstivi nei prossimi giorni. E ricordatevi: oggi si celebra il 50° anniversario dell’indizione del Concilio Vaticano II. Come ha detto un sacerdote che ho intervistato qualche giorno fa, “speriamo arrivi presto un nuovo Giovanni XXIII”!

Buon Natale, anche dal Lato Oscuro!

 
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Pubblicato da su 25 dicembre 2011 in Diari, Sproloqui

 

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Diritti, costi, benefici… e sogni!


Sono cresciuto pensando che i diritti dovessero essere gratis; dopotutto, un diritto a pagamento cessa di essere diritto, secondo me, e diventa bene superfluo.
Lo scontro con la realtà può essere traumatico – in qualche misura lo è sempre – ma di solito si sopravvive; moltissimi, però, si disilludono. Dal mio canto, invece, è rimasta la pervicacia e la testardaggine del sognatore, di colui che ai diritti ci tiene davvero. E che non si lascia abbindolare senza lottare.
Poi ci si sente soli, capita a tutti; guardandosi attorno si osservano amici, persone con le quali si pensa di condividere opinioni e spunti, cedere al duro mondo esterno e scendere a patti con un sistema che nessuno di noi apprezzava davvero. Una storia che ricorda un po’ una canzone di Gino Paoli, lo so, ma credo che, bene o male, in molti l’abbiano vissuta.

Stasera sono stato felice di sentire Gino Strada parlare di sanità pubblica; mi ha donato un sospiro di sollievo non da poco, devo ammetterlo. Strada ha ribadito con il buonsenso che lo contraddistingue la necessità di confermare e potenziare il sistema sanitario nazionale e l’urgenza di renderlo realmente gratuito. Per tutti. Ed eccellente.
Ha parlato di sprechi e di qualità, ha parlato di Emergency come modello esportabile – a basso costo – e l’ha fatto con la competenza del tecnico e con la passione del sognatore. Di quasi tre ore di programma made in Santoro, le parole di Strada, abbastanza laterali sull’argomento principale della trasmissione, sono quelle che mi hanno colpito davvero. Hanno centrato nel segno.

Il motivo è da trovarsi nell’autorevolezza della voce. Non è stato un proclama politico di un demagogo sinistroide (Vendola?) o di un marxista fuori dal mondo reale, ancora convinto che teorie economiche ottocentesche che provano a prevedere la storia siano attuabili e realizzabili. Gino Strada ha parlato armandosi di buonsenso e di competenza, sicuro sull’argomento perché lo conosce e perché ha messo in pratica in prima persona quel che predica. E nessun marxista può dire altrettanto – per fortuna.
Allora, se anche una persona di buonsenso, una persona pienamente ancorata nella nostra realtà e nel contesto, che opera in giro per il mondo da decenni, coltiva sogni come quelli di questo misero trentenne di provincia, c’è speranza. E non si tratta di una speranza politica, ideologica o teorica: si tratta di un approccio realistico, praticabile e perseguibile. Una strada su cui incamminarci e che ha tutte le caratteristiche della via reale.

Non voglio soffermarmi su Strada e sulla sanità – gratuita – perché non è l’argomento del post; voglio piuttosto vertere sulla necessità di sognare e di pensare a come cambiare davvero il mondo.
A piccoli passi. Con buonsenso/senso comune (criticato). Senza un’utopia finale.
Diamo tutto lo spazio a Popper, se lo merita; ma diamo anche spazio ai sogni e alla voglia di realizzare questi sogni. Non dobbiamo essere indignati dalla realtà, ha detto don Ciotti, ma infuriati. E dobbiamo voler cambiare questa realtà, in meglio. Per tutti.
Molto scout tutto questo, perché si tratta veramente di lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato. E allora facciamolo, invece di lamentarci del governo, dei politici, del sistema. Piantiamola di cedere e facciamo avanti le proposte che veramente ci stanno a cuore. Piuttosto litighiamo, ma eliminiamo il silenzio.

 
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Pubblicato da su 23 dicembre 2011 in Politica, Sproloqui, Teoria

 

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Articolo 18: diritti e proposte


L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori – quello che impedisce il licenziamento senza una giusta causa – è al centro di numerose polemiche, che stanno caratterizzando queste giornate. Dall’apertura della della Fornero agli esimi pareri di numerosi giuslavoristi, si sente vociare circa la necessità di una riforma di questo articolo e, ancor più, della sua applicazione.
Posso dire di essere d’accordo sulla necessità di una severa riforma della disciplina, non c’è alcun dubbio; ritengo, tuttavia, che la mia opinione sia saldamente differente da quella della Fornero, degli imprenditori e di molti politici/politicante che si dicono “di sinistra”. Estremamente diversa.

Ci sono dei criteri di fondo che nella disciplina del lavoro non possono mai essere scordati. Il primo è il diritto al lavoro; il lavoro – non l’impresa – è il fondamento su cui è costruita l’Italia. La nostra Costituzione – e ogni volta che la rileggo, trovo che sia un documento programmatico di una bellezza, profondità e sensibilità sociale tanto affascinante e condivisibile, quanto spregiudicata – sancisce questo elemento con l’Articolo 1 e ribadisce l’importanza del lavoro, tanto da farne un diritto, con l’Articolo 4.

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ho sottolineato la seconda parte perché credo sia una caratteristica splendida di questo articolo: ci dice non solo che lavorare è un nostro diritto ma che spetta allo Stato fare in modo che ci sia lavoro per tutti. È un espresso compito della Repubblica produrre quelle condizioni economiche e sociali che consentano a tutti di avere un lavoro e, attraverso questo, mantenersi dignitosamente (lo aggiunge il comma successivo): sarà anche una Costituzione criptocomunista ma ne sono innamorato!
Credo che non ci si debba arrendere sulle difficoltà di attuazione e, pertanto, credo che non si debba cedere in materia di Articolo 18. Semmai bisognerebbe rilanciare.
Bisognerebbe rendere l’Articolo 18 il grimaldello con cui forzare la serratura del “sistema capitalistico” e rovesciare un’ottica talmente sorpassata da risultare inadatta alla Costituzione. E, badare bene, non è la Costituzione a essere antiquata, bensì quest’atteggiamento neoliberistico che nasconde, assieme a una buona dose di egoismo, classismo ed elitarismo, una sana dose di malvagità sociale. Penso, in verità, che la Costituzione sia uno splendido programma su cui dobbiamo camminare, con perseveranza e costanza, senza dimenticare gli errori del passato ma tenendo bene a mente che la destinazione è sacrosanta.

Cosa significa questo, in pratica? Che, tutto sommato, il modello di flexicurity mi piace e potrebbe essere convincente. Non ho mai nascosto di essere un sostenitore del modello scandinavo – una socialdemocrazia che tenga al centro i lavoratori e i loro diritti, la garanzia che possano vivere del loro lavoro, sempre – e che mi piacerebbe assistere alla sua implementazione in Italia, pur ritenendola estremamente difficoltosa. Il testo di Ichino al riguardo è abbastanza illuminante e abbastanza condivisibile: forse troppo. Sembra quasi di leggere il Paradiso dantesco, per certi aspetti.
Non sono, invece, d’accordo sul metodo di attuazione. Non credo che il primo passo sia incidere sull’Articolo 18: credo, invece, che il primo passo sia incidere sulla contrattazione a tempo determinato e sul precariato. La garanzia va data ai lavoratori, non alle imprese; e la storia che senza imprese il lavoro non c’è, non regge. L’impresa deve, come i lavoratori, adeguarsi alla regolamentazione, volente o nolente; allo stesso modo dei lavoratori, al cambiare delle regole può adattarsi o estinguersi. Essendoci (molti) più lavoratori che imprenditori, il buonsenso dice che si debbano tutelare questi cittadini, proprio perché sono un’ampia maggioranza – il che non vuol dire affossare l’impresa, ovviamente, ma far pagare il giusto dazio. Dopotutto, un imprenditore che non sa stare alle regole dovrebbe finire in mezzo a una strada quanto un lavoratore licenziato, quindi…
Cancellati i contratti precari, si può passare alla costruzione di un modello a garanzia occupazionale, ma flessibile, può essere una risposta. Ma il primo passo non deve essere l’eliminazione delle garanzie, bensì la loro estensione; nel secondo tempo andrai a incidere sulla struttura del contratto e non è detto che l’intervallo debba essere lungo. Forse solo il tempo necessario per stabilizzare il mercato occupazionale.

In fin dei conti, si torna a quanto dicevo e scrivevo di Popper. Lui sosteneva che, in una società aperta, bisognasse dare la priorità alla libertà sull’uguaglianza, perché tra non liberi non può esserci vera uguaglianza. Io ho ribattuto, di contro, che ritengo entrambe massimamente importanti: credo che la Costituzione vada per questa strada, ne sono ragionevolmente sicuro. Non possiamo prescindere dall’uguaglianza per costruire vera libertà. Non possiamo e, anche se potessimo, non dobbiamo volerlo. L’alternativa è rimanere in un mondo di ineguaglianze e scivolare lentamente lungo una china che non mi piace affatto.
E, sinceramente, la ben poca chiarezza della sinistra – del PD in particolare – nel fronteggiare le proposte riguardo la distruzione dei diritti dei lavorati, suona come un allarme che dovremmo seguire con maggiore attenzione. ll liberismo ha smantellato la nostra società, ha condotto l’umanità a un nuovo stato di barbarie; ha anche portato a importanti conquiste, ci mancherebbe. Ma non possiamo dimenticare che le conquiste sociali sono figlie più delle lotte marxiste – e non sono marxista – che della struttura liberal-capitalistica della nostra società (oltre che della dottrina sociale della Chiesa: non la dimentico mai). Forse è ora di cambiare non solo le carte in tavola, ma il gioco stesso: serve un gioco senza un banco che vinca sempre, tra soggetti sempre e comunque uguali.

 
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Pubblicato da su 22 dicembre 2011 in Politica, Sproloqui, Teoria

 

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Debolezze governative


Ieri lo psiconano è tornato a parlare, cogliendo nuovamente un’occasione per tacere. Ancora una volta si è espresso sulla debolezza dell’esecutivo, portando l’esempio di Monti che, dopo aver approvato via decreto una manovra, se l’è vista criticare dalle forze politiche e ha dovuto modificarla perché il Parlamento la approvasse.
Nella mentalità imprenditoriale e personalistica dell’ex inquilino di Palazzo Chigi, assolutamente inaccettabile. Non è pensabile, per lui, che un governo debba scendere a patti con un Parlamento: chi mai sono questi tizi oscuri, seduti in un emiciclo, per permettersi di contrastare le opinioni del Capo? Dopotutto, sono stati nominati da lui, mica eletti… è normale che debbano solo ossequi al governo in carica.
Così, almeno, sembra pensarla l’uomo che molti – troppi – hanno votato in questi anni. Complimenti vivissimi!

Il problema è su più livelli; il primo, strettamente istituzionale, è la mancanza di una coscienza reale del mandato costituzionale. L’Italia è una repubblica parlamentare, non presidenziale; il potere legislativo – le Camere – hanno l’espresso compito di vigilare sull’operato del governo, di indirizzarlo e di approvarlo. Dopotutto, il governo è l’esecutivo: esegue quel il legislativo decide. Non il contrario.
Berlusconi vede la cosa in maniera radicalmente differente, non mi stupisce affatto: ma la Costituzione al riguardo è chiara. E di cambiarla non se ne parla! Non in questo, almeno (cambierei un paio di altre cose, ma c’è un post in preparazione da mesi al riguardo).

Il secondo livello di lettura è l’abbrutimento istituzionale in cui viviamo: l’ultimo ventennio ci ha abituati a storture istituzionali dovute a forzature comunicative, al desiderio d’imperium di un singolo uomo. E c’è da dire che buona parte della colpa è della sinistra, che non ha saputo metterlo a tacere e riparare ai danni fatti (vedi legge elettorale incostituzionale).
Si, perché vent’anni di berlusconismo hanno sia sopito le coscienze, sia scavato idee malsane nella testa della gente.
L’idea malsana, ad esempio, che spetti al popolo eleggere il presidente del Consiglio dei Ministri; l’idea malsana che sia questo presidente il protagonista della vita politica del paese e che si trovi a capo del governo, di cui, invece, ne coordina e indirizza l’operato; l’idea malsana che il governo abbia pochi poteri e che gliene si debbano dare altri, mentre è vero l’esatto opposto, che andrebbero segati i decreti leggi (previo sveltimento delle procedure parlamentari). L’idea, poi, che i giudici siano tutti comunisti.
L’idea che la politica sia una barzelletta e non una questione seria, da gente seria – a volte noiosa. De Gasperi aveva un eloquio pomposo, Moro era sonnolento, Togliatti sopra le righe: nessuno di loro raccontava barzellette ai comizi, tutti erano statisti. La vedete anche voi la differenza?

La difficoltà maggiore sarà ripulire le menti italiane da queste storture: e abbiamo bisogno di farlo, prima che sia troppo tardi. Prima che qualcuno non metta veramente mano all’impalcatura dello stato e rovini equilibri sottilissimi – già devastati dalle leggi elettorali – mettendo a repentaglio la democrazia del paese.
Non dobbiamo ascoltare Berlusconi: dobbiamo, invece, ascoltare chi ha scritto la Costituzione all’alba di un nuovo giorno, dopo la notte del fascismo. Dobbiamo preservare il parlamentarismo, potenziarlo se necessario, indebolire ancora l’esecutivo, perché la democrazia funziona dove a decidere ci sono organi collegiali, rappresentativi.
E non pensiate che altre riforme, meno istituzionali e più sociali come il noto articolo 41, siano meno dannosi: dare spazio eccessivo alla libertà d’impresa, consentendo apertamente tutto ciò che non è espressamente vietato, ad esempio, è un vero suicidio. Già ora l’Italia è… legalmente creativa… figuriamoci dopo un provvedimento del genere. Dopo un inserimento del genere nella Costituzione! Guardiamocene bene…

C’è un testo da preservare, soprattutto ci sono valori e concetti che non dobbiamo toccare: semmai dobbiamo proseguire il cammino lì indicato. Dobbiamo rendere il lavoro un diritto riconosciuto ed effettivo, non un privilegio per pochi. E quel lavoro deve essere riconosciuto con un emolumento che consenta di mantenere lavoratore e famiglia con dignità. Perché la Repubblica è fondata sul lavoro. Non sull’impresa… sul lavoro di chi quell’impresa la manda avanti. Certo, compreso il proprietario: ma è uno fra tanti e conta quanto ciascun suo dipendente. Perché, appunto, non è la forma di lavoro a fare l’Italia ma il lavoro stesso.
E al diavolo il Nano: lui passerà, noi non vogliamo vivere fra le macerie che ci lascerà.

 
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Pubblicato da su 16 dicembre 2011 in Politica, Sproloqui, Teoria

 

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Higgs… o non Higgs?


Il CERN è stato protagonista del rimbalzare di una notizia che, a seconda di chi l’ha riportata, è suonata come una svolta storica. Tuttavia, a discapito di quel che dicono certe testate, del bosone di Higgs non c’è ancora traccia definitiva.

Ieri il seminario dei coordinatori di Atlas e Cms, due degli esperimenti di Lhc al Cern, hanno annunciato che “c’è qualcosa” tra 116 e 127 GeV: alcuni hanno tradotto “qualcosa” con “bosone di Higgs” ma i ricercatori non ne sono così certi. Almeno, non lo dicono in pubblico: tra le righe si può senz’altro leggere la comune sensazione che quell’eccesso di materia sia la traccia lasciata dal fantomatico bosone, ma le prove sperimentali non lo dicono con sufficiente certezza da poterlo affermare in pubblico. Per ora.
La cautela, insegnano i vecchi maestri, è la prima dote del ricercatore che vuol far carriera: con Higgs la carriera è assicurata, diciamocelo.

La caccia a questa particella fondamentale ha due ruoli, essenzialmente entrambi centrali per la fisica contemporanea: da una parte si tratta di trovare la particella che, stando al Modello Standard, l’attuale sistema teorico della fisica elementare, conferisce massa alle altre particelle e, quindi, a tutti i corpi; dall’altra la sua presenza confermata sarebbe una corroborazione determinante per l’accettazione del modello stesso, un po’ la prova mancante.
Non mi metterò a parlare di “confermare le teorie scientifiche” o Popper si ribalterà nella tomba: diciamo, però, che l’uso di corroborare costituisce il dovuto rispetto e distacco. Però se Higgs fosse trovato e combaciasse con MS… ecco, sarebbe una prova importante che consentirebbe di usare il modello ancora a lungo. Fino a che qualcuno non dimostrerà che non funziona (e prima o poi accadrà: è solo questione di tempo).

Insomma, è veramente una “particella divina”, perché detiene nelle sue piccole manine il futuro della fisica delle particelle… e non solo. Dalla sua esistenza dipendono anche preziosi indizi sulla genesi dell’universo e sulla natura intrinseca della materia; se non fosse confermato, si aprirebbe una voragine che dovrebbe essere riempita da nuove teorie e, al momento, i fisici sembrano concordi nel non trovare nulla di altrettanto convincente del Modello Standard.
Interessante però notare come gli italiani siano sempre in mezzo alle buone notizie scientifiche, soprattutto in fisica, anche se poi si dimenticano di loro quando è il momento di premiare qualcuno (cfr. Cabibbo): oggi Higgs, quest’estate i neutrini… non credo sia casuale. Anche se Profumo non parlerà di tunnel per bosoni da affiancare a quello per neutrini, il ruolo del nostro paese dovrebbe farci riflettere: pur nelle ristrettezze e nel totale disinteresse degli ultimi governi, la ricerca italiana riesce ad andare avanti e dimostra di essere forte e ricca di competenze. Forse dovremmo andare a investire lì, innovazione e ricerca prima di tutto, anziché disperdere fondi altrove.

Comunque sia: ho scritto un articolo su Higgs, meno lieve e più giornalistico: è su Daily Blog e ve ne consiglio la lettura.
E se volete approfondire l’argomento… non dovete che chiedere!

 
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Pubblicato da su 14 dicembre 2011 in Divulgazione scientifica

 

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Dottore


Il blog è deserto da alcuni giorni non a caso, è dovuto alla mia assenza preventivata. Ho avuto dei buoni motivi, comunque.
Ve lo assicuro!

Ieri ho finalmente conseguito la laurea in storia, dopo un bel po’ di anni di studio. Una piccola soddisfazione ma una tappa importante per segnare il passo. L’argomento, penso l’abbiate ormai scoperto tutti, era Popper e le critiche agli storicismi: si, un bel po’ di filosofia e non troppa storia,a  prima vista, Eppure, come dicevo ieri alla commissione, comprendere le teorie di Popper e gli storicismi è fondamentale per leggere dovutamente la storia contemporanea. Il XX secolo, dopotutto, è stato intriso di storicismi, basti pensare al marxismo e ai tentativi di attuare nella realtà le teorie di Marx.

La pausa del blog non durerà moltissimo, non abbiate paura. Ci sono già un paio di post che aspettano solo di uscire – argomenti ce ne sono parecchi, non temete – e credo che avranno spazio già da oggi pomeriggio o, al più tardi, domani. Non sono certo il tipo da ubriacarsi e sparire per settimane in coma etilico: mi leggerete di nuovo molto presto.
Quantomeno il mondo circostante aiuta, fornisce spunti interessanti: tra la finanziaria-furto, genitori che chiedono al tribunale di obbligare la figlia ad abortire e piccole novità scientifiche, il materia non manca.

Ora, ovviamente, potete chiamarmi dottore… anche sul blog!

 
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Pubblicato da su 13 dicembre 2011 in Diari, Sproloqui

 

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Exalted: road to Hell…


Dunque, Exalted.
Nel pieno della stagione di crisi del fantasy-che-piace-a-me, Exalted diventa un gioco ampiamente accettabile e francamente divertente.
Come dissi anni fa, i gusti cambiano… anche in materia di giochi. Cambiano senza stravolgersi, certo, quindi non mi troverete a tessere le lodi della Quarta Edizione di D&D; d’altronde non ho mai detto che Exalted fosse pessimo, solo che poteva essere perfezionabile e che alcune sue sfumature non erano di mio gusto.
Approfitto del giorno di festa per parlare un po’ di Exalted, di come lo vedo io, di come suona secondo gli altri. Di cosa toglierei o modificherei, oltretutto. Materiale ce n’è in abbondanza.

Il primo punto su cui trovo criticabile Exalted è l’atmosfera orientaleggiante da bimbominkiafilonipponico.
Credo che dagli anni ’80 subiamo eccessivamente il fascino della cultura orientale, osannandola e inserendola a forza nella nostra vita. Cartoni giapponesi, oggetti giapponesi, cibo giapponese (o cinese), massime orientali, fumetti (terrificanti!) giapponesi…
La permeabilità della culture è qualcosa che apprezzo e sponsorizzo in prima persona; la esterofilia ignorante no. Il 95% dei fautori di questa moda non ha capito una mazza della mentalità orientale – tant’è che i manga ce li propinano come prodotto infantile, perché da noi i cartoni sono per bambini, salvo tagliare le scene di sesso: indagare e scoprire che si tratta di filmografia per pubblico normalmente adulto richiedeva troppi neuroni – e si bea della conoscenza di dieci parole in giapponese, del cuscino da abbraccio dell’eroina dei manga, della tazza di Dragonball.
Exalted, in quanto americanata, è l’esatto approdo ruolistico di questo processo: estetica filo-orientale (a partire dai caratteri delle pagine) senza l’impegno della comprensione reale del modello sociale che sta alla base della cultura che si vuole imitare. Insomma, l’idea mi fa un certo ribrezzo… il che non aiuta il primo impatto. Se poi il setting si rivela ben poco orientale a leggerlo, ben curato e valido (tra i migliori), l’idea iniziale che se ne fa l’utente casuale che guarda la copertina e sfoglia le pagine è di un prodotto mangoso. Ho subito anch’io quest’effetto, mi ci sono volute settimane di lettura del manuale per riprendermi.
Nel campo, a dire il vero, preferisco allora Qin o Legend of the Five Rings: ampiamente orientali ma quantomeno informati. Se il primo ha un’affidabilità storica ammirevole, il secondo sta al Giappone come D&D sta al medioevo europeo… e va bene così, non pretende altro. Neppure ci prova a essere mangoso: e mi piace per quello.

Partiamo dal presupposto che ho interrotto la visione di 300 dopo mezz’ora perché mi stavo addormentando dalla noia. Dunque trovo eccessiva l’enfasi che viene suggerita dall’interpretazione corrente del gioco.
Non serve fare seimila giravolte per decapitare un nemico: basta un colpo netto, secco e preciso.
Non serve rimbalzare tra gli alberi per compiere un affondo: basta una corsa travolgente.
Trovo questi orpelli scenici decisamente noiosi e superflui: li uso – per questioni meccaniche che spiegherò dopo – ma non migliorano per niente la qualità della mia giocata. A dire il vero, a lungo andare la riducono! Eh si, perché a forza di doversi inventare scene “epiche”, si scade nel ridicolo o nel già visto. Allora la bellezza di un attacco ben descritto, particolarmente spettacolare, va a farsi benedire, perché tutti gli attacchi tendono a quello. Decade l’eccezionalità della scena.
Insomma, un “effetto supersayan”!.

Veniamo a una critica tecnica: trovo assurdo che la mia abilità di narratore influenzi l’abilità in combattimento del mio personaggio. Viola, a mio modo di vedere, l’assioma di base del mio personaggio: lui può cose assolutamente impossibili a me e non serve che io sappia farle.
Per chi non conosce Exalted, un rapido dettaglio: descrivendo l’azione del proprio personaggio, si possono ottenere dei dadi bonus da aggiungere alla pool originale.
Comprendo l’intenzione dello sviluppatore: conferendo un bonus, si esorta anche il giocatore più banale a evitare il classico “lo attacco” e a far fiorire la narrazione. Altra soluzione americana, devo ammettere: da un paese in cui l’evasione fiscale è bassa perché le pene sono alte, questo posso aspettarmelo. Ma prediligo anche qui la via scandinava: l’evasione è bassa perché i servizi elargiti con le tasse funzionano e, soprattutto, perché la popolazione è culturalmente educata a pagarle.
L’analogia è quindi diretta: un sistema che debba ricorrere a simili mezzucci per incrementare la qualità del gioco è un sistema (o un gioco) fatto male. Quantomeno in questo campo, la mia è una critica tassativa: sono un fan assolutista della differenza tra giocatore e personaggio. Posso essere il peggior oratore del mondo ma ho lo stesso diritto di Silvio Berlusconi di interpretare lo zenith più socievole del pianeta. E ho il diritto di tirare il suo stesso numero di dadi, perché il personaggio – giustamente – non sono io. E non è lui.
In fin dei conti, le acrobazie ingabbiano il gioco, costringendo sempre e comunque le persone al tavolo a forzare la descrizione, anche quando non è debitamente ispirata (non raccontiamoci che è possibile evitare, perché quei due dadi extra facilmente aggiungibili sono lì apposta!). Sarebbe meglio per il gioco e per la giocabilità che la descrizione non influenzasse l’azione di gioco: emergerebbe naturale quando ispirata, resterebbe un “lo colpisco con la spada, menando un fendente” quando meno ispirata, colorerebbe veramente il gioco con la sua straordinarietà eccezionale!

Ultima negatività: il sistema di combattimento è veramente macchinoso.
Non è un difetto assoluto, posso passarci sopra perché, a ben vedere, funziona. Sarebbe bello averlo più semplice (Scion in parte lo fa… ma Scion ha un paio di milioni di altri difetti, ben più gravi!), ma si sopravvive anche così. Lo trovo un ostacolo all’immediata fruizione del gioco ma non un danno permanente.
Certo, poter risolvere un combattimento importante in meno di due ore e mezza lo troverei incoraggiante, eh!

A valle di tutto questo, rimango della mia idea generale: meglio D&D (3.5). Molto meglio.
Tuttavia, in assenza di possibilità di giocarlo e nell’ottica che a D&D ho giocato per anni e cambiare un po’ fa solo bene, Exalted è un’ottima esperienza. Rimangono e permangono i suoi problemi – o i miei problemi con lui. Ma nell’equilibrio di un gioco di ruolo sono del tutto sopportabili, anche perché nulla è perfetto.
Oltretutto, unico vero motivo: giocando a Exalted mi diverto. Significa, a mio modo di vedere, che va bene così. Mi diverto anche quando gioco a D&D 4Ed, per la compagnia e per il casino, però. Al limite per la trama. Non per il gioco in sé. Exalted compie già quel “passo in più”: ha i suoi difetti, ma tutti i giochi hanno i loro difetti, anche Mage (lo ammetto a malincuore). Certo, si potessero eliminare alcune cose… soprattutto le acrobazie…

 
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Pubblicato da su 8 dicembre 2011 in Curiosità, Giochi di Ruolo

 

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Ritorno all’ICI…


Ne ho già parlato in numerose occasioni (qui e qui, soprattutto), chi ha seguito il blog ormai conosce la mia posizione sull’argomento. Speravo fosse questione accantonata almeno per un po’ ma è tornata a galla con la finanziaria e con il solito tam-tam di menzogne su internet (Facebook docet).

Il problema che affronto oggi è diverso: più che la questione dell’ICI – avendo già dimostrato che la Chiesa paga, e paga come un banco, direi che posso fermarmi qui – credo sia di interesse analizzare il problema della comunicazione e dell’attacco laicista al mondo del no profit.
Eh si, tutto il no profit, ovviamente: perché se il sistema viene modificato e la Chiesa paga le tasse su ciò che ora non è tassato – chiese, oratori, ospedali, case d’accoglienza – a collassare non sarà la Chiesa ma il sistema del volontariato, quella cosa che bene o male manda avanti il wellfare nazionale in periodo di crisi. Perché, signori miei, quando una famiglia non arriva a fine mese, dov’è che va a chiedere un chilo di pasta, tre euro per il pane o un aiuto per l’affitto?
Il rischio del gioco di questi anticlericali è che si ritrovino in mezzo al casino che essi stessi promuovono: oh, certamente non il rischio che corrono i fautori generali di queste iniziative di disinformazione, ovviamente. A rischiare seriamente sono tutti quelli che ripetono su Facebook concetti demagogici senza informarsi un minimo sulla questione, senza andare a leggere i testi di legge, senza approfondire l’argomento: tra costoro sicuramente ci sarà qualcuno che, mi spiace per lui, perderà il lavoro, sarà in difficoltà o avrà bisogno di un sostegno economico/sociale. Non è un augurio, intendiamoci: è un’asserzione in forza della statistica!
Spero per questo signore – e per tutti i poveri d’Italia, sempre troppi – che nulla delle sue follie sia poi realizzata (e sinceramente Monti sarà anche un capitalista, ma non è scemo). Nel malaugurato caso che lo fossero, capirà sulla sua pelle quanto è facile parlare e smontare una reputazione senza avere prove, e quanto doloroso possa essere per molti un cieco assalto d’ira insensata come questo.

In questi mesi in cui mi sto dedicando a fare comunicazione – di nuovo ma in veste diversa – un po’ mi vergogno di appartenere a una certa categoria: preferisco ritenermi “più corretto” di certi aulici e superiori colleghi, servi però di interessi di parte e, in quanto tali, al livello dello stesso Minzolingua che tutti detestano (a ragione, eh!).
Credo che il vice-direttore di Avvenire abbia scritto con le sue parole tutto quanto si potesse scrivere sull’argomento:

Chi dice il contrario mente sapendo di menti­re. E chi riaccende ciclicamente la campagna di mistificazione sull’«Ici non pagata» non lo fa per caso, ma perché intende creare confusio­ne e, nella confusione, colpire e sfregiare un doppio bersaglio: la Chiesa e l’intero mondo del non profit. Non sopportano l’idea che ci sia un «altro modo» di usare strumenti e beni. Vor­rebbero riuscire a tassare anche la solidarietà, facendo passare l’idea che sia un business, un losco affare, una vergogna. E vogliono farlo nel momento in cui la crisi fa più
male ai poveri, ai deboli, agli emarginati, alle persone comun­que in difficoltà. Sono militanti del Partito ra­dicale
e politicanti male ispirati e peggio in­tenzionati. Battono e ribattono sullo stesso fal­so tasto, convinti che così una menzogna di­venti verità. E purtroppo trovano anche eco. Ma una menzogna è solo una menzogna. È questa la «vergogna dell’Ici

Chiaro, conciso, efficace. Bravo Tarquinio.
Mi limito a monitorare questo fenomeno di disinformazione, confidando che l’Italia migliori in materia e riesca a uscire dal tunnel in cui Craxi e Berlusconi l’hanno gettata, con l’abile collaborazione altrui. Come mi auguro che riesca a contenere in via definitiva le iniziative laicistiche – e non laiche: il linguaggio ha sempre peso e valore – i Radicali e i loro scioperi della fame ci hanno portato l’aborto, mi auguro non peggiorino ancora la la situazione.

 
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Pubblicato da su 7 dicembre 2011 in Politica, Religione, Sproloqui

 

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Questa maledetta notte dovrà pur finire!


questa maledetta notte
dovrà pur finire

Ci sono momenti di questa nostra notte in cui ti chiedi se potrà mai finire davvero.
Ci sono momenti di questa nostra notte in cui lo scoraggiamento ti assale e sei certo che non ci sia modo di sfuggire alla marea.
Ci sono momenti di questa nostra notte in cui sei sicuro che la marea ti coglierà, e non potrai fare nulla per fermarla o sfuggirle.

Eppure l’alba arriva e il sole rischiara sempre, ancora una volta, quei pochi fiori che aspettano con fiducia il nuovo caldo.

Credo ci siano piccoli fiori per cui è necessario lottare.
Credo che dobbiamo alzare la voce quando il nostro diritto al lavoro, al lavoro onesto e onorevole, è calpestato.
Credo che dobbiamo alzare la voce quando la scuola pubblica è considerata una “serie B” dell’istruzione e i suoi fondi sono indirizzati al sistema privato.
Credo che dobbiamo alzare la voce quando la libertà di esprimere la propria fede è impedita da scelte razziste, dettate da un’ignorante paura.
Credo che dobbiamo alzare la voce quando il nostro governo, afflitto da bullismo internazionale, consente azioni di guerra contro stati che non ci hanno attaccato, in violazione della Costituzione.
Credo che dobbiamo alzare la voce quando le leggi ci privano sempre più di diritti fondamentali, come la salute e l’accesso alla miglior sanità possibile.

Credo che dobbiamo alzare la voce ogni volta che un diritto, soprattutto un diritto di un altro che non siamo noi, è calpestato: perché quel fratello capirà il nostro gesto e si unirà a noi nell’alzare la voce quando altri diritti saranno dimenticati.

Credo che dobbiamo alzare la voce: non credo, invece, che dobbiamo tacere, rassegnarci, contenerci dietro un “è sempre stato così” o un “tanto non cambierà mai”.
Lo dobbiamo a un inglese nato due secoli fa, militare per professione e pedagogo per vocazione: sognava – lui sognava davvero, sognava forte, e guardate cos’ha fatto – che i cittadini potessero essere cresciuti fin da piccoli, educati a partecipare e a prendersi sulle spalle quel pezzettino di responsabilità che può stare nel loro zaino. Sognava che ciascuno di questi cittadini, cresciuti con un po’ di utopia nel cuore, lavorasse giorno per giorno a rendere le cose “un po’” migliori, per consegnare a suo figlio un mondo un po’ cambiato rispetto a quello che aveva ricevuto da suo padre.

Lo stesso lavoro è costruire una cattedrale: qualcuno la sogna e la immagina, lavora per trovare i fondi e passa la mano a chi la progetta. Quando i lavori sono avviati, ormai è il figlio dell’anziano architetto a condurli e, infine, quando ormai tutto è concluso e si celebra la prima messa sull’altare maggiore in marmo luccicante, a celebrarla sarà chiamato il nipote di uno di quei bambini che assistevano a occhi sgranati alla posa della prima pietra.
Noi non vedremo molti passi avanti nella nostra vita ma, se ci impegniamo, poseremo abbastanza mattoni da veder salire un po’ quel muro e poter riposare alla sua ombra, quando saremo vecchi. Così facendo, lasceremo ai nostri figli un muro a cui dare un tetto.

Per i miei rover e le mie scolte,
perché imparino che è giusto lottare
per costruire la cattedrale che vorremmo

 
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Pubblicato da su 4 dicembre 2011 in Diari, Sproloqui

 

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Il Concilio “pastorale” e la dottrina: il colpo inatteso dell’Opus Dei


Il Concilio Vaticano II, a un passo dal cinquantesimo anniversario della sua indizione, è ancora oggetto di discussione e di divisione all’interno della Chiesa. Più di Nicea, probabilmente, e più di molti altri, forse secondo solo al Concilio di Costantinopoli VII (eh si… il ritorno di Fozio e il Filioque, che sembra un film di Spielberg e invece è la grande causa di divisione tra cristiani cattolici e cristiani ortodossi…).
Un bel casino, insomma, questo Concilio Vaticano II, soprattutto per gli strascichi, le polemiche, le accuse di modernismo. Lo Spirito, attraverso il Concilio, ha portato un vento di profondo rinnovamento sulla Chiesa e, come ogni cambiamento, anche questo è stato profondamente avversato da frange più o meno conservatrici, più o meno ragionevoli, più o meno benedette dal buonsenso. Risparmio le mie tirate su sedevacantisti e stramberie del genere, preferisco soffermarmi sul conservatore della domenica, quel tipetto non necessariamente anziano che non vede il sacro nella celebrazione in lingua volgare, che trova sconveniente la celebrazione con il sacerdote rivolto verso il popolo o che proprio non vuol capire che laici e sacerdoti non sono disposti verticalmente, su una gerarchia di comando, ma rispondono solo a diversi Talenti dati loro dal Padre, rimanendo fratelli.
Insomma, materiale del passato…
Chi mi conosce sa cosa dico di buona parte del Concilio di Trento: se per alcuni è stato il coronamento di un percorso d’innalzamento progressivo, secondo me è poco più di un’azione politica di marketing. A Trento – e a Bologna e nelle altre città dove si tenne il concilio – i (pochi) padri conciliari, stretti tra due o più fuochi imperiali e papali, presero decisioni che segnarono indelebilmente l’età moderna, non solo della Chiesa. Da Trento è uscita la Tradizione, quella che ancora oggi alcuni osservano con religiosa pietas, dimenticandosi che la tradizione non deve essere venerata ma dev’essere uno strumento di venerazione. Confusione ce n’è anche tra chi crede di avere le idee chiare, decisamente. Questa tradizione, però, di tradizionale ha ben poco: più che altro è una latinizzazione della Chiesa, con qualche nuovo inserimento e qualche forzatura, necessaria a tenere compatta la Chiesa in un’ora estremamente difficile, quella della Riforma protestante. A ben vedere, quasi tutte le decisioni del Concilio di Trento furono prese tenendo bene a mente questo scopo: evitare il diffondersi della Riforma. Soddisfare le voci di riforma della Chiesa – senza la maiuscola: le critiche interne, giustissime, sulla corruzione, sullo stato vescovile, sulla pastorale – fu più un orpello, un accessorio: dove venne raggiunto, fu quasi coincidentale, a margine di scelte più importanti.

Ma sto perdendo il filo, non voglio scrivere di Trento, non oggi. Ne parleremo un’altra volta (promesso). Torniamo al Concilio Vaticano II, al quale tanto dobbiamo. Lo scritto a cui mi sono ispirato per questo post è questo: si tratta di un testo di Fernando Ocariz, vicario generale dell’Opus Dei. Il vicario scende con decisione in alcuni dettagli “scomodi” della teologia legata al Concilio e lo fa con toni che mai mi sarei atteso dall’Opus Dei; è quindi meritevole non solo di una lettura, bensì di una profonda meditazione, a mio avviso. Lo consiglio non solo per chi già si ritrova nei testi conciliari ma anche per chi sia a essi allergico (anche se mi domando come sia giunto fino a questo punto del post senza spedirmi a casa un gruppo di inquisitori).

Uno dei nodi mai del tutto risolti è quello della fedeltà alle posizioni del Concilio che, com’è noto agli addetti ai lavori (e ai maniaci come me) non ha offerto posizioni dottrinali o dogmatiche in alcuna delle sue Costituzioni. Ocariz chiarisce in pochissime righe la situazione della struttura di questo Concilio e le sue parole sono più incisive delle mie: “l’intenzione pastorale del Concilio non significa che esso non sia dottrinale”. La vocazione pastorale del Concilio, in pratica, non ne nega i contenuti dottrinali, tutt’altro: poiché la pastorale è parte della dottrina e questa è orientata alla Salvezza – come potrebbe essere altrimenti? – non possiamo scindere i piani e riferisci a uno solo di questi, perché il loro scopo ultimo e unico è sempre e soltanto la Salvezza.
I chiarimenti giungono anche in materia di obbedienza, perché ancora oggi si discute su quanto sia rigido l’obbligo di aderire a una professione pastorale non dogmatica. Ocariz è decisamente incisivo anche su questo argomento, soprattutto quando spiega che il Concilio Vaticano II è a tutti gli effetti “un insegnamento dato da Pastori che, nella successione apostolica, parlano con il «carisma della verità» (Dei verbum, n. 8), «rivestiti dell’autorità di Cristo» (Lumen gentium, n. 25), «alla luce dello Spirito Santo»”. Poche storie, pochi margini, nessun giro di parole: una condanna a morte per il cattoconservatore (se a me danno del cattocomunista, a torto, potrò coniare anch’io dei neologismi, giusto?) e per alcune strampalate teorie. Come supponevo da tempo, non si può gettare il bambino e tenere l’acqua sporca (Cit.!).
Ocariz specifica bene i vari “ranghi” dell’obbedienza e fa rientrare la gran massa delle dichiarazioni conciliari nell’ampia categoria che richiede “dai fedeli il grado di adesione denominato «ossequio religioso della volontà e dell’intelletto». Un assenso «religioso», quindi non fondato su motivazioni puramente razionali. Tale adesione non si configura come un atto di fede, quanto piuttosto di obbedienza, non semplicemente disciplinare, bensì radicata nella fiducia nell’assistenza divina al magistero, e perciò «nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede»”.
L’ultimo nodo serissimo del Concilio, quindi, è la continuità con i precedenti insegnamenti della Chiesa; sedevacantisti a parte, non sono pochi coloro che contestano al Concilio Vaticano II la creazione di mostruosità dottrinale, aggiungendo poi che altre e peggiori mostruosità si sono poi sviluppate sull’onda dello “spirito del Concilio”.  Il vicario dell’OD, pur ricordando che alcuni elementi sono ancora in discussione, ribadisce chiaramente che “di fronte alle novità in materie relative alla fede o alla morale non proposte con atto definitivo” è “dovuto l’ossequio religioso della volontà e dell’intelletto”. Altro colpo sacrissimo alla reazione. L’interpretazione vera del Concilio “deve affermare l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità”, quindi… anche quando queste sembrano giungere a conclusioni decisamente distanti da quanto affermato in precedenza. La chiave di volta della lettura è contenuta nella novità, “novità nel senso che esplicitano aspetti nuovi, fino a quel momento non ancora formulati dal magistero, ma che non contraddicono a livello dottrinale i documenti magisteriali precedenti”. Una posizione coraggiosa, che sarà sicuramente contestata ma che trovo precisa a circostanziata. D’altronde subito dopo si fa riferimento alla libertà di religione, una novità introdotta proprio dal Concilio, e si illustra chiaramente come la sua definizione sia frutto dei tempi, delle condizioni sociali e politiche nuove, situazioni con le quali la Chiesa non può che interagire, visto che, per definizione, essa è immersa nella storia, è storia essa stessa!

Credo che potrei intrattenermi per ore e ore a scrivere cosa penso del Concilio, soprattutto quando, testi conciliari alla mano, scopro prospettive mai attuate o lasciate storpie che, a mio parere, oggi sarebbero linfa vitale per la Chiesa. Abbiamo bisogno di essere operai nella vigna del Signore, non teologi distanti o incomprensibili eremiti che meditano seduti su un filo d’erba: la Chiesa – noi siamo la Chiesa – dobbiamo essere tra la gente a portare l’annuncio, non predicare dal pulpito. Sentir dire che don Ciotti è insignificante perché non fa il suo dovere di prete – che sarebbe avere una parrocchia ordinaria, dire messa, seguire i parrocchiani, etc – è quanto di più distruttivo possa esserci oggi per l’essenza stessa della Chiesa: Gesù non solo pregava nel Tempio ma annunciava e viveva tra prostitute e malfattori. I Vangeli ci riportano più predicazioni di Gesù a folle di poveri, disperati e ladri che orazioni teologiche tra gli scranni sacerdotali: non dovremmo forse seguire il suo esempio?

Si, ho finito: chiudo con un commento sul Concilio e su Ocariz, perché lo trovo azzeccato.” l Concilio nel suo insieme e i suoi insegnamenti non possono essere messi da parte, o fatti oggetto di critiche corrosive come se si trattasse soltanto di opinioni”. Sacrosanto. Ricordiamocelo.

 
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Pubblicato da su 3 dicembre 2011 in Religione, Sproloqui

 

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