Quello che potete leggere di seguito è un articolo che ho scritto per Homo Nero, la rivista periodica della sezione AIA di Savona. Ebbene, oltre che scout, appassionato di storia, filosofia e politica sono pure un arbitro di calcio.
Mi son trovato a rimuginare il contenuto dell’articolo per un po’ di tempo, forse un mese, nell’attesa di scriverlo; i concetti erano lì, da afferrare e rendere con parole chiare. Spero che l’esercizio da articolista abbia raggiunto il suo scopo e trasmetta l’urgenza dell’emergenza democratica del paese, rappresentata attraverso lo sguardo del campo da calcio: credo che prelevare questa sezione della società e analizzarla, come con una sezione di organo per le analisi al microscopio, possa rivelare moltissimo dello status dell’intero organismo, la nostra povera Italia. Buona lettura.
Le difficoltà istituzionali che il nostro paese sta vivendo in questo periodo sono l’esito di un processo a lungo termine di complessa individuazione, quantomeno per noi che viviamo al suo interno e che ne siamo protagonisti, ma che può essere ricondotto a una difficoltà nell’accettare la legalità come parte integrante della società odierna. È ancor più evidente la fatica individuale – dei singoli – a vivere la legalità come valore personale della vita concreta e quotidiana. Ricevere una raccomandazione è “cosa quotidiana”; farsi stralciare da un amico vigile una multa è un “normale favore”; ritoccare la dichiarazione dei redditi è “qualcosa che fanno tutti”; aggirare una lista d’attesa per una visita ospedaliera “una furbizia”.
Contestare l’arbitro o simulare un fallo da rigore “un’astuzia di esperienza”.
Credo che noi arbitri di calcio viviamo un ruolo di privilegio e di responsabilità. Privilegiati perché siamo sentinelle sulla soglia della società: a contatto con i giovani, immersi in un ambiente di competizione aperta che favorisce il confronto sano e sincero, possiamo studiare e individuare per tempo fenomeni che coinvolgono, appunto, le generazioni più giovani, vivendole sulla nostra pelle. Responsabilità perché assumiamo un ruolo di garanzia e ufficialità, di simbolo dell’autorità ed esempio: l’arbitro in campo deve essere maestro e guida, soprattutto rappresenta una norma super partes che deve calarsi, attraverso il nostro operato, nella realtà della partita.
Giudici, notai e sentinelle.
Qui è possibile inserire una riflessione più mirata frutto degli anni trascorsi sui campi, delle discussioni con i colleghi e delle notizie sportive che da tutto il paese giungono all’orecchio attento. I problemi non compaiono all’improvviso ma sono annunciati per tempo, molte le spie che possono segnalarli; queste, spesso, sono voci di chi grida nel deserto e non vengono accolte, registrate o individuate. Per questo vorrei soffermarmi su questi passaggi che noi arbitri abbiamo vissuto negli ultimi anni. Sia chiaro fin da subito che non si tratta mai di cause univoche: il calcio è una delle realtà – una realtà minore – della nostra società. Eppure sappiamo già che lo sport sa essere specchio di situazioni più complesse e non possiamo negargli attenzione, soprattutto non possiamo noi che del calcio facciamo scelta ben al di là del fischietto. Arbitri, dopotutto, lo siamo fuori e dentro il campo, arbitri lo siamo nelle scelte di ogni giorno.
Credo che ciascun collega conosca perfettamente le esperienze che andrò a descrivere; parliamo di legalità e di rispetto delle regole. Non penso che giocare secondo le regole sia una questione fine alle regole stesse; meglio, forse può esserlo nello sport, che è definito proprio dalla presenza di regole specifiche (o basket, calcio e rugby non avrebbero differenze). Eppure lo sport è palestra di vita e della vita è specchio: l’abitudine ad aggirare le regole scritte e comuni è nello sport come là fuori, nelle nostre giornate.
Certo non possiamo stabilire dove il ciclo inizi; dopotutto non ci interessa sapere se essere scorretti in campo è frutto o germe dell’essere scorretti nella vita, qualora questo dubbio avesse senso (e io credo di no). Possiamo però riflettere su ciò che possiamo fare noi, cittadini e arbitri, al riguardo. Arbitri-cittadini, direi io. Ci viene in aiuto il regolamento dell’AIA: “Gli arbitri, in ragione della peculiarità del loro ruolo, sono altresì obbligati: […] ad improntare il loro comportamento, anche estraneo allo svolgimento della attività sportiva nei rapporti con colleghi e terzi, rispettoso dei principi di lealtà, trasparenza, rettitudine, della comune morale […].”
Siamo a mio modo di vedere degli esempi di comportamento e di rettitudine: il clima di profondo disordine che respiriamo sui campi – basti pensare alle piccole astuzie e scorrettezze delle squadre e dei calciatori che di volta in volta sono messe in pratica – non deve coinvolgerci. Anzi, deve esortarci a vigilare ancor più sul rispetto delle regole.
Potremmo chiederci perché queste regole siano così importanti; nel calcio e nella democrazia le regole sono ciò che dividono il divertimento – o lo stato positivo – dal caos e dall’anarchia. Non sono importanti in quanto regole ma assumono un valore superiore perché condivise e sottoscritte da tutti coloro che vi si relazionano. In quanto calciatori, in campo tutti sanno di dover rispettare il regolamento e dovrebbero attendersi che esso sia fatto rispettare, perché quelle regole distinguono il calcio dal basket o dal football. L’insieme delle regole definisce ciò che il calcio è. Analogamente, una Costituzione definisce ciò che è uno stato: la Repubblica Italiana è tale perché ha una Costituzione che ne descrive i principi, i valori e le istituzioni.
Accetto di giocare a calcio e, contestualmente, accetto di rispettare le regole, appongo la mia firma in calce al regolamento.
Vivo in Italia e, contestualmente, ne accetto l’aspetto istituzionale, la Costituzione.
Non mi piacciono le regole del calcio, cambio sport o redigo una proposta di modifica per l’IFAB; non mi piace una legge o vedo una mancanza nella legislazione italiana, emigro o faccio pervenire alle Camere un Disegno di Legge. E le modifiche – si badi bene – non possono snaturare l’origine: non ha senso che proponga l’uso delle mani da parte degli attaccanti più di quanto non ne abbia proporre la transizione da repubblica a monarchia.
Riprendendo il filo calcistico della questione, dubito che qualcuno di noi colleghi non abbia mai assistito a tentativi di forzare le regole, di piegarle alle proprie esigenze, analogo comportamento di alcune forze politiche nell’Italia d’oggi. Fin dalle più giovani categorie sentiamo allenatori e genitori sussurrare suggerimenti ai calciatori riguardo a colpire quando l’arbitro è girato, a spingere l’avversario con il petto tenendo ben aperte le braccia, a protestare per mettere pressione all’arbitro, in modo che sbagli, a deridere e provocare l’avversario. Quante proteste plateali per decisioni altrettanto platealmente corrette abbiamo subito? Quanti gesti di scorrettezza sono scambiati per “giusta astuzia”, anche da noi che – dopotutto – siamo parte del meccanismo stesso?
Non è certo il problema calcistico a preoccuparmi: dopotutto, è un gioco. A lasciarmi perplesso è il farsi strada di questa stessa idea (ideologia?) nella vita quotidiana, un avanzare veicolato anche dallo sport, in particolare dal calcio, per noi. Perché barare sul tesseramento di un ragazzino di dodici anni è un conto, corrompere un testimone è un altro, modificare le leggi per evitarsi una condanna un altro ancora. Siamo spinti a ritenere che “esser furbi” sia un valore o, quantomeno, una cosa giusta per proteggere i propri interessi. Io penso di no e penso che la formazione arbitrale non sia indifferente in questa mia opinione. Penso anche che come arbitri possiamo, nel nostro piccolo, essere maestri di legalità, mostrando che il rispetto delle regole porta a un maggior divertimento reciproco e che proprio questo divertimento costituisce il fine del calcio, anziché la vittoria. Se questo messaggio avesse successo, il passaggio ulteriore sarebbe quello di transitare la correttezza e il rispetto delle regole nella vita quotidiana: non spetta a noi, certo, ma avremmo seminato bene.
Seminare e attendere che i risultati crescano è, certe volte, tutto ciò che possiamo fare.