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Archivio mensile:marzo 2012

Parlamento tecnico, governo politico


Dicono che in Italia ci sia un governo tecnico, posto alla guida del paese per risanarci da una crisi economica che ha rischiato di causare il tracollo più epocale alla nostra società.
Dicono anche che i partiti politici rappresentanti in parlamento che supportano tale governo siano, nel frattempo, intenti a ordire le riforme istituzionali che “da tempo servono all’Italia”.

Premettendo che non vedo necessità di grandi riforme istituzionali – ne parleremo poi: a me basterebbe una nuova legge elettorale che sia anche rispettosa della Costituzione e una legge che cancelli, in politica, conflitto di interessi e indagati con scranno – e che ho paura di cosa potrebbe partorire la mandria di deficienti politicamente e mafiosi che calcano oggi la scena politica (Alfano, Bersani e Casini come possono far meglio di Calamandrei, De Gasperi e Togliatti?), credo che a essere tecnico, ormai, sia il Parlameto – i parlamentari, per l’esattezza – e non il governo.
Mario Monti nei suoi mesi a Palazzo Chigi ha dimostrato di saperci fare; è abile, competente, puntuale, preciso, organizzato e deciso. Tutta un’altra cosa rispetto ai recenti predecessori, soprattutto se paragonato al nanetto recente. Però non si dica che è un tecnico. La linea del suo governo, ben spiegata e portata avanti con chiarezza, è decisamente e prevalentemente politica; persegue un ovvio piano liberale, perfettamente introdotto nell’attuale congiuntura e senza mettere in discussione la struttura socio-economica di base ma, anzi, inserendosi nel solco delle forze conservatrici di governo, oggi prevalenti in Europa. Dopotutto è “legge storica” (nel senso di tendenza spiegabile ma non certa e neppure ineludibile) che nei tempi di difficoltà ci si affida a chi promette sicurezza; vero quanto l’assenza di memoria negli italiani, visto com’è andata a finire le ultime volte che ci siamo affidati a chi prometteva sicurezza. Probabilmente, dev’essere “legge psicologica” la stupidità umana.

Ma dicevamo della politicità del governo tecnico: direi che la sua politica parla da sola e ci chiarisce che di tecnico c’è ben poco. Tagli allo stato sociale, riduzione dei diritti dei più deboli a vantaggio dei più forti e via dicendo. Questo è un governo politico, guidato da una chiara linea ideale-ideologica di stampo liberale-liberista (si, un cancro per l’umanità, da estirpare): sarebbe un governo tecnico anche uno guidato da me, dopotutto, se mi fosse concesso di guidare a mio piacimento le operazioni.
D’altronde non sono neppure certo possa esistere un vero governo tecnico, salvo in casi molto particolari e circostanziati, tanto da far risultare la generalizzazione “tecnico” come una forzatura: quei governi, se ci sono stati, non sono propriamente classificabili e tanto basta.

Passiamo al Parlamento: quello si che è diventato tecnico, soprattutto per quel che riguarda la maggioranza; i tre grandi capi, infatti, ben di rado si son sognati di mettere in discussione le posizioni di Monti – giusto sull’Articolo 18 Bersani avanza proteste, ma temo che poi accetterà: e accetterà anche la decisione del popolo della sinistra di non votare più il Pd – e molto spesso hanno emesso commenti del tipo “questo provvedimento non ci piace molto, ma lo votiamo lo stesso perché deve passare per il bene del paese, anche se noi faremmo diversamente”. Frasi pronunciate un po’ da destra e un po’ da sinistra, con Casini a cui tutto va bene, da buon centrista.
Il Parlamento e i suoi membri, in pratica, hanno perso del tutto il ruolo di coscienza e guida dell’esecutivo: il governo, infatti, dovrebbe eseguire quanto decide il Parlamento, non il contrario. Se con B. era ovvio che il Parlamento approvasse quel che lui voleva, perché era il capo e tutti gli eletti facevano riferimento a lui, e basta, non certo al popolo, ora con Monti si assiste all’eutanasia delle coscienze. Nonostante aspri disaccordi e provvedimenti fuori dal mondo – per l’una e per l’altra parte, ma più per la sinistra – si approva tutto “perché serve al paese”. Nessuno che proponga una ricetta alternativa.
Ecco, questo è essere tecnici: approvare qualcosa perché “ce n’è bisogno”.

Credo che tutto questo fosse inevitabile: la qualità della classe politica italiana s’è degradata a tal punto che l’ideologia – nell’accezione di “qualcosa in cui credere e che guida l’azione” – è malvista o del tutto defunta. E dove andiamo senza un briciolo di idea su come cambiare le cose, in meglio? Neppure Popper arriverebbe a una tale soppressione della progettualità, ricorderebbe solo di pensare su tempi brevissimi e di evitare le utopie e i grandi piani. Attualmente in Parlamento siedono perlopiù soggetti spinti da interessi personali (propri e/o altrui) o sono del tutto carenti sotto il punto di vista della preparazione politica: siamo in attesa non dico di un leader ma quantomeno di un politico decente da almeno due decenni. Se penso che, al momento, il meglio – giudizio tecnico – è Fini… cado in una cupa depressione, davvero. Suppongo ci siano soggetti validi, da qualche parte, ma devono essere molto ben nascosti, timidi o segregati dai partiti di riferimento: l’ultima, in effetti, non mi sorprenderebbe affatto.

Restiamo, così, con una democrazia sospesa: non perché, come dicono i politicanti di destra, il governo non è stato scelto da popolo – in Italia il popolo non sceglie il governo – ma perché i soggetti eletti si sono volontariamente sottratti alle loro responsabilità, delegando di fatto e integralmente la gestione dello stato a una forza che non dovrebbe averne le competenze. E che, qui si, non è stata eletta dal popolo, unica fonte e unico attore del potere di base.
Cosa fare, allora? Alle urne?
Non sarebbe una soluzione perché non modificheremmo le menti degli eletti che, bene o male, sempre quelli sarebbero. Qui “lè tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!”, veramente. Rimbocchiamoci le maniche e scendiamo in campo, ecco la risposta.

 
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Pubblicato da su 28 marzo 2012 in Politica, Sproloqui

 

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L’acquisto della coscienza


“Con il solo indennizzo per il lavoratore licenziato ingiustamente passerebbe  un messaggio assai negativo quello che con un po’ di denaro si ha la libertà di togliere illegittimamente il futuro alle persone”.
Sembrano parole di Landini. O della Camusso. Forse di Vendola o, magari, di un Bersani illuminato dall’alto. Invece a pronunciarle è stato Enzo Letizia, sindacalista dei funzionari di polizia, non certo il più marxista e rivoluzionario tra i sindacati italici.

La Cigl protesta, il PD si spacca, il PdL gioisce (strano: ogni volta che c’è da ledere i diritti dei deboli, il PdL è sempre favorevole!), le voci disinformate si moltiplicano.
Non voglio quindi unirmi all’orda di commentatori tecnici – peraltro non sono un giuslavorista: sono uno storico e cerco di limitarmi a riflettere sul nostro tempo con occhio critico ma attento ai diritti e ai deboli – che stanno delirando su pagine stampate e digitali. Piuttosto che scendere veramente nell’arena, mi limiterò a intaccare la (sovra)struttura generale della proposta montiana.

La prima cosa che mi colpisce – e mi sconvolge – è la monetizzazione di un diritto: è la strada al mercato umano, perché se iniziamo a barattare il lavoro, fonte della dignità umana, finiremo per barattare anche il resto. Già la salute è questione da ricchi…
Sancire che il lavoratore licenziato per arbitrio del datore di lavoro merita non il reintegro (quindi il suo posto di lavoro, legittimo) ma una paccata di soldi, significa svilire la vita umana fino a renderla mero oggetto di una compravendita.
Non ci sto, mi spiace: è la dimostrazione, l’ennesima, che il liberismo propugnatoci da Monti, dall’Europa, dagli Stati Uniti (e anche dalla Russia, tranquilli: niente utopie sovietizzanti in me…) è inadatto a soddisfare i basilari diritti umani, oggi come ieri. Un passo avanti rispetto a ciò che c’era prima, certo, ma un passo indietro rispetto a quello che la sensibilità attuale – e la Costituzione – ci chiede a gran voce. Ci impone.

Altro lato della questione: secondo me, un imprenditore che deve licenziare per “ridotta produttività” è un imprenditore che ha sbagliato da qualche parte. O prima assumendo troppo, o dopo non riuscendo a mantenere la quota di mercato che aveva conquistato e che gli consentiva quel numero di occupati (alternativamente, è stato poco efficiente nell’adattarsi alle mutate condizioni del mercato). Nell’ottica liberale – che io non approvo ma che tanto piace a questo governo – la colpa sua: e, secondo me, a pagare deve essere lui, non il lavoratore “di troppo”. Che vada a casa l’imprenditore, non l’operaio/impiegato.

Non dobbiamo adeguarci all’Europa, dobbiamo spezzare il sistema costruendone uno basato sulla solidarietà generale, sull’equità e sulla garanzia dei diritti fondamentali. Si, suona vagamente “old comunist style”, mi ci manca l’invettiva contro il capitalismo e quasi ci siamo. In realtà, anche se la lotta è simile, credo siano cambiati moltissimi termini di discussione e credo anche che, per quanto riguarda me, il marxismo c’entri poco. Non avrei apprezzato Popper, altrimenti.
Credo però che l’uguaglianza e la libertà debbano venire di pari passo e che la libertà di alcuni – imprenditori – non possa distruggere il futuro, e la libertà, di altri – i lavoratori.

Un po’ questa riforma mi fa sorridere perché dimostra come il liberismo non lo vogliano neppure i liberisti stessi. Se infatti accettassero appieno il loro credo, coglierebbero perfettamente le garanzie dei diritti dei dipendenti come strumento per dimostrare l’inadeguatezza dei colleghi che dovessero ricorrervi, costringendoli de facto a crollare. Non darebbero loro certo strumenti per proteggersi e mantenersi a galla: il liberismo è una gara a chi è più forte. Se neppure i liberali vogliono il liberismo, perché dovrei volerlo io che son cristiano?

 
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Pubblicato da su 21 marzo 2012 in Politica, Sproloqui, Teoria

 

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19 marzo


Oggi è il diciottesimo anniversario dell’omicidio di don Giuseppe Diana, parroco di Casal di Principe ammazzato dalla Camorra per il suo impegno nella lotta alla criminalità organizzata.
“Per amore del mio popolo non tacerò” è il titolo del testo che ne sancì la condanna a morte da parte della camorra locale; è anche uno scritto che racchiude, in poche righe, la profonda realtà della vita civile sottomessa alle organizzazioni criminali, particolarmente in un territorio complesso e storicamente schiavo delle associazioni camorristiche. Ne consiglio la lettura, è rintracciabile con facilità su Wikipedia e veramente tratteggia con poche parole il dolore di una terra non libera, sotto un giogo ingiusto e immorale.

Giuseppe Diana era un sacerdote che, per amore del gregge assegnatoli e della sua stessa terra, non ha taciuto l’urlo di denuncia contro il sopruso e l’ingiustizia. Dovrebbe essere annoverato tra i martiri della Chiesa – ci si sta lavorando – e dovrebbe esser portato a esempio per noi cristiani in materia di impegno sociale. Perché essere cristiani non può essere slegato in alcun modo da “essere legali”. Essere cristiani significa, in primo luogo, rispettare gli altri – amarli – e non c’è amore nel sopruso, nella violenza e nella violazione della convivenza civile.

Credo sia opportuno ricordare don Giuseppe come un eroe contemporaneo, una persona che ha saputo donare la vita perché quella degli altri potesse essere migliore.
Non parlo del martirio – il brutale omicidio di stampo camorristico – ma della scelta di parlare, di non tacere: il dono don Giuseppe l’ha compiuto in quel momento. Anche se la sua storia avesse avuto un diverso epilogo, comunque quel giorno, con quelle parole, il cammino del dono sarebbe stato segnato.

Ci troviamo ancora oggi a combattere contro la criminalità organizzata di stampo mafioso; mentre la lotta prosegue dal basso, i piani alti della società civile orchestrano colpi di mano per semplificare la vita alle associazioni che infettano la nostra vita. Se non è questo il momento per farci sentire, non so quale altro potremmo attendere.
Non serve essere eroi e neppure altruisti per farlo; dobbiamo, però, compiere questo gesto per amore del nostro popolo. Che siamo anche noi stessi, dopotutto.

 
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Pubblicato da su 19 marzo 2012 in Politica, Sproloqui

 

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Tomorrow…


Domani saremo lì, è giunta l’ora. Ci saremo anche oggi, a dire la verità, ma domani Genova sarà invasa da coloro che manifestano per difendere (o per costruire) la legalità nel nostro paese.

Viviamo un momento difficile per la Liguria, su questo fronte. Due consigli comunali sciolti, indagini importanti a Imperia – un caso che tutto rientri nel “regno” di Scajola? – allarme su tutto il territorio per l’infiltrazione delle organizzazioni mafiose a ogni livello dell’economia locale. E non.
Dobbiamo svegliarci, dobbiamo combattere.
Le organizzazioni mafiose ritengono ormai un loro diritto influenzare l’economia del nostro paese – l’Italia – e non riconoscono minimamente i confini stereotipati che molti politici vorrebbero ancora tracciare tra “nord” e “sud”. Le mafie sono anche qui, eccome. Grazie alle connivenze, ai silenzi, agli accordi, alle negligenze, all’incompetenza della classe politica e dirigente. E grazie al silenzio – spesso autolesionista – dei cittadini, dagli imprenditori ai poveri afflitti dagli strozzini.

Dobbiamo svegliarci noi, dobbiamo combattere passo a passo, recuperare terreno.
C’è una sola possibilità ed è l’educazione, la sensibilizzazione culturale. Dobbiamo imparare il rispetto delle regole comuni e insegnarlo alle generazioni più giovani. Credo sia l’unica via, non possiamo non passare da questo lavoro di costruzione futura, in prospettiva. Dobbiamo iniziare oggi, però, per migliorare anche il futuro prossimo, immediato.
C’è da combattere una disoccupazione dilagante, e lo stato deve intervenire tarpando le ali a chi licenzia, assumendo egli stesso, tagliando spese inutili – armi – e reinvestendole in settori che forniscano maggior occupazione e servizi – istruzione, sanità. C’è da distruggere una mentalità furbesca che regna sul paese: l’evasione fiscaleva abbattuta, punita come danno alla collettività e analogamente deve essere perseguito il lavoro nero. C’è da rivoluzionare il mondo del lavoro, a partire dall’articolo 18 di cui si parla da tempo; anziché indebolirlo, deve essere potenziato, esteso, reso maggiormente vincolante. L’imprenditore deve accollarsi la responsabilità sociale dell’assunzione: se non è in grado dgestire un’azienda capace di sostenere le persone assunte, che fallisca e lasci spazio a imprenditori più capaci.
Si devono cambiare le regole del gioco economico, sicuramente.
E dobbiamo imparare a rispettare le regole, viverle non come punizione e limite ma come risorsa e civile confine per la convivenza pacifica con i nostri fratelli.

Ma ora in marcia; domani, prima ancora di tutto questo, sarà una giornata di memoria per vittime innocenti di assassini folli, incivili, viscidi. Saremo lì per far sentire la vicinanza alle famiglie e a chi oggi rischiano la vita, quotidianamente.
“Non dimentichiamo” è l’urlo che salirà dalla folla, domani.
E non dimenticheremo neppure tornati a casa: anzi, ricorderemo e faremo ricordare. Fino a che l’ultimo mafioso non sarà estinto, specie da museo dell’orrore, ricordo del passato.

 

 

 
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Pubblicato da su 16 marzo 2012 in Diari, Politica

 

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Funkestein: musica savonese alla ribalta


Non mi sono quasi mai occupato di musica sul blog – è noto ormai che io ascolti perlopiù Baglioni – ma oggi farò un’eccezione, del tutto savonese.Racconterò qualcosa dei Funkestein, brevemente perché preferisco lasciar parlare la loro musica.

Per quanto non sia un intenditore musicale – e a dire il vero abbia un orecchio pari a quello di un coccodrillo sordo – raccontare di un gruppo savonese che si affaccia con una produzione propria, e gratuita, rappresenta una interessante diversione dai temi solitamente noiosi e permalosi del mio blog.

Panissa Funky, album e brano centrale, prendono il nome da un piatto locale, geniale, gusto e, soprattutto, fritto. Tradizione savonese al centro dell’intero percorso musicale, verrebbe da dire mentre si ascoltano i brani, perché è proprio di Savona che raccontano nei passaggi.
Musicalmente, come dice una recensione online, è un gruppo che “si dedica ad un funky rock sporcato da influenze blues, latin e swing“: una sonorità che risponde tutto sommato alla natura multiforme delle città di mare.
I testi, poi, raccontano veramente di questa città e dei suoi abitanti: c’è spazio per sorridere – belin! – per riflettere, passando da un brano all’altro. Citare sia il Letimbro, torrente savonese, ricordare la farinata di ceci e raccontare della generazione dei trent’enni in un unico album non è cosa da poco.
Ne risentiremo parlare, mi auguro, perché narrare – e cantare – la propria terra è cosa buona e giusta. Per questo vi invito anche ad ascoltarli, partendo dal myspace, che contiene i brani del primo album.
Buon ascolto… e buon commento!

 
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Pubblicato da su 14 marzo 2012 in Curiosità, Poesia

 

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Le responsabilità (storiche) della sinistra e della politica italiana


La diatriba – secondo me pittoresca – tra Nanni Moretti e Fausto Bertinotti circa le responsabilità dei “comunisti” nel crollo del governo Prodi e nel successivo dominio berlusconiano del paese – realmente una pagina cupa e oscura, seconda solo al Ventennio in quanto a orrori e storture della democrazia – cade nel bel mezzo della rilettura di Bloch, “Apologia della Storia”, testo che è pietra miliare della mia formazione storica, che dovrebbe essere lettura per tutti i cultori e che dovrebbe interessare, in qualche modo, anche cronisti e politici. 

L’intervista a Moretti, pubblicata da Repubblica, contiene alcuni spunti interessanti che meritano una certa analisi. Non sono d’accordo con il regista quando dice che “manca una vera opinione pubblica”: credo, invece, che l’opinione pubblica ci sia eccome. Semplicemente quest’opinione pubblica è più interessata a X-Factor o all’Isola dei Famosi piuttosto che alla politica economica, al conflitto di interessi o allo stato delle carceri.Dopotutto si tratta di un paese in cui una persona su sei non va a votare alle elezioni politiche, occasione in cui una su tre di quelle che lo fanno sceglie deliberatamente di sostenere con il voto un tizio che, palesemente, da vent’anni gestisce il paese come un’industria propria, modificando leggi e sistemi per ottenerne il massimo profitto.

Si tratta, allora, di un problema di responsabilità civile e, prima ancora, di buonsenso. Ma, si sa, il buonsenso non è soggetto a cui assegnarsi per fiducia, meglio allora puntare sulla sensibilizzazione e sullo stimolo critico.
Non credo, infatti, che l’aggressione frontale al sistema scolastico perpetrata dalla destra sia un caso; piuttosto una strategia di “indebolimento” del pensiero critico, una trasformazione della scuola da “allevamento di cittadini” a “fornitrice di informazioni tecniche”. Perché, in effetti, è questo che vuole il sistema capitalistico: una scuola che insegni “utilità” da impiegare sul lavoro, possibilmente senza pensare eccessivamente e, soprattutto, senza dedicarsi a iniziative critiche personali. Il volere del padrone non si discute.

Io, che credo nel mandato di formazione di cittadini responsabili e consci dei loro diritti/doveri, ripudio completamente questo approccio e, in prima istanza, do la colpa del suo successo all’estrema debolezza e incapacità della sinistra. PD, soprattutto il PD: ma il PD, si sa, è figlio dell’insuccesso dell’Ulivo, frutto esso del “tradimento” di Bertinotti.
In storia, però, si devono sempre rifiutare le cause monolitiche, si deve rifuggere dall’idolo delle origini (grazie prof. Bloch). Quindi non scarico su Bertinotti l’origine del processo causale: gli assegno, invece, una profonda responsabilità, un ruolo di concausa. Perché è noto che la sinistra sappia farsi male da sola, scindersi inopportunamente, non cogliere il momento in cui stringere i denti per evitare il peggio. Lo fa a sproposito, di contro, come nel caso del governo Monti.
Grazie tante.

La sinistra italiana ha così perso un treno importante; arenandosi su questioni secondarie e dedicandosi a battaglie ridicole – eutanasia, no TAV, no global, missioni NATO – ha lasciato mano libera ai governi-fantoccio del Nano in materie veramente centrali, senza le quali ciò per cui ha combattuto risulterebbe comunque non fondante: giustizia, leggi ad personam, istruzione, sanità, informazione, conflitto d’interessi, mafia, evasione fiscale, immigrazione…
Un po’ Moretti fa sorridere quando ricorda i suoi “girotondi”: serviva ben altro per destare un minimo la sensibilità italica. Non l’abbiamo fatto e oggi ne paghiamo carissime conseguenze. Berlusconi e Monti, in serie ma con diverse modalità, stanno snaturando (distruggendo) lo stato sociale costruito con duri sacrifici e durissime lotte; il successo del secondo, poi, è costruito perlopiù sull’inadeguatezza del primo. Un po’ come se, dopo un decennio di nazionali di calcio costruite convocando calciatori di prima e seconda categoria, oggi convocassero qualcuno della serie D: pur sempre brutte partite ma, almeno, qualche passo avanti.
Che molti rimpiangano il Nano, poi, è sinonimo dell’insipienza della mente italiana media.

Cosa resta da fare? Uscirne. Uscirne al più presto. Per uscirne serve uno sforzo culturale enorme da parte della sinistra: è necessario sapersi lasciare alle spalle i faldoni del passato, ammettere che non tutti i padri della sinistra sono attuali/sensati (a partire da Marx) e, tenendo d’occhio i valori, rivoluzionare la struttura, le pratiche, il linguaggio, le persone, gli obbiettivi pratici.
Sembrerà quasi che si debba uccidere la sinistra: da un certo punto di vista è così. Si deve cancellare il tutto per ricostruire: la “resurrezione” post mortem oggi è forse l’unica possibilità per garantire il successo, domani, dei valori per i quali la sinistra lotta da decenni. Si, quei valori che il suo elettorato vuole veder affermati.

 
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Pubblicato da su 13 marzo 2012 in Politica

 

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