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Archivi categoria: Curiosità

2012 in review


I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2012 per questo blog.

Ecco un estratto:

600 people reached the top of Mt. Everest in 2012. This blog got about 4.600 views in 2012. If every person who reached the top of Mt. Everest viewed this blog, it would have taken 8 years to get that many views.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

 
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Pubblicato da su 2 gennaio 2013 in Curiosità, Diari

 

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Produzione propria


Oggi sarò breve e conciso.
Mentre Elsina ci suggerisce di non fare troppo gli schizzinosi, trovo giusto dare un po’ di spazio a una produzione video-giornalistica made in Savona. Parliamo allora di Play&Comics Magazine.

Opera di quattro liguri (Edoardo Bellanti, Elisa Bruno, Alice Corsi, Saverio Iacono) che hanno progettato e realizzato questo video, il video è un pilot, un lancio, per un magazine online che tratterà di giochi e fumetti. E poi ci sono i due geniali conduttori, per quanto la mangosaggine non rientri nei miei gusti.
Non sono un esperto di comunicazione, quindi mi astengo da ogni parere di merito. Quel che segnalo è sicuramente l’iniziativa di un prodotto diverso dal solito, rivolto a un pubblico sicuramente interessato all’approccio tecnologico e, magari, spesso di fretta per sfogliare pagine (anche web) e leggere recensioni, novità e quant’altro.
L’iniziativa merita ulteriore spazio anche per l’intuizione del 3D: anche se questo pilot è un “comune” video, le prossime puntate saranno fruibili anche con la tecnologia che ha reso di successo film come Avatar. E questo è senza dubbio un passo importante: che avvenga a Savona, poi, sembra quasi incredibile, almeno per chi conosce un po’ la nostra città.

Potrei polemizzare con chi sta gestendo questa crisi economica e impedisce l’emergere di talenti, giovani o medi che siano; mi limiterò a lasciarvi in compagnia del video, invece, in modo che possiate gustarvelo e informarvi sulle prossime uscite senza dover ricorrere a peregrinazioni in edicola o attraverso la Rete.

 
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Pubblicato da su 23 ottobre 2012 in Curiosità

 

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Di cani e di persone


L’input è nato da questo articolo. Non solo, ovviamente, era una riflessione sorta già durante altre dibattiti a cui ho assistito, con analoghe divergenze di giudizio rispetto al maltrattamento di persone o di animali.

Viviamo in un mondo a più velocità, ne siamo ormai tutti consci. La divergenza nel rapportarsi con le persone o con gli animali, però, ogni tanto mi lascia particolarmente perplesso.
L’esempio del cane e della velina credo sia emblematico: le associazioni animaliste, che poi spesso si dimostrano una lobby insensata, si sono immediatamente inalberate alla notizia della soppressione del cagnolino e hanno ricevuto buona visibilità mediatica. Dall’altra parte, per fare un esempio, l’attenzione mediatica per i numerosi casi di “favori sessuali” nel mondo dello spettacolo o della moda ormai non solletica più alcuna fantasia.
Uccidere il proprio cane – violento – rende indegni per la Tv, andare a letto con il regista no.

Potrei citare casi più vicini a noi, casi di senzatetto e aree canine.
Credo che questa discrasia di trattamento sia indice di una certa confusione valoriale che attanaglia il nostro mondo. Dopotutto in certi ambiti – spettacolo incluso – ricorrere all’aborto per “liberarsi” di una gravidanza non desiderata è strumentalmente accettato, addirittura comodo, e si può estendere il concetto alle vessazioni subite dalle donne in carriera che vorrebbero procreare (“costringerle” all’aborto o spingerle controvoglia alla pillola non è molto diverso, moralmente, perché sempre vessazioni e pressioni sulla vita della donna sono). D’altra parte se qualcuno s’inalbera perché una velina ha abortito, subito lo si taccia di cristianesimo antiquato e di intromettersi negli affari altrui. Se la protesta è per un cane violento soppresso… “povera bestia”.

Viviamo davvero in un mondo i cui parametri di riferimento stanno un po’ vacillando, le priorità non sono poi così ben percepite. Non solo in campo morale: le code di matti che hanno atteso per ore un iPhone 5 nel bel mezzo della più grande crisi economica degli ultimi ottant’anni sono un esempio di criteri di giudizio completamente saltati. Come dice spesso un parroco che conosco, la povertà non è solo l’assenza del denaro ma anche l’incapacità – culturale? – di gestirlo.
L’incapacità – culturale! – di gestire i criteri valoriali è sicuramente ancor più grave e precedente a questo concetto di povertà. I parametri con cui molti di noi sono cresciuti oggi non contano poi così tanto…

Non sono contrario al progresso per partito preso, ai cambiamenti, all’evolversi della società. Ci terrei, però, che questi mutamente inevitabili avvenissero preservando l’umanità che c’è in ciascuno e nell’altro.
L’altro che è anche il barbone che dorme nel portone di casa quando piove, perché non ha un posto dove andare e perché il suo disagio è anche colpa mia – e della mia società – che non ho saputo aiutarlo. Dopotutto anche lui è una persona.
L’altro è anche la donna incinta “costretta” ad abortire per non perdere il lavoro e le opportunità di carriera: quale società possiamo aspettarci da un sistema che mina l’esistenza della famiglia?
Abitando in una città che ha un sacco di “aree canine” ma solo mezzo bagno pubblico, ho paura delle risposte alle mie domande.

 
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Pubblicato da su 2 ottobre 2012 in Curiosità, Sproloqui

 

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Carcere sallustiano


E non si parla di autori latini!

sallusti carcere processo diffamazione giornalisti etica libertàIl caso del direttore del Giornale ha scosso opinione pubblica e giornalistica in tutto il paese. Che un giornalista possa andare in carcere per quello che ha scritto, si dice, suona come una minaccia alla libertà d’opinione. Che, poi, un direttore possa essere incarcerato per quello che ha scritto un suo collaboratore, sembra ancora più grave.
E si torna a parlare di “casta”, perché la denuncia questa volta è partita proprio da un giudice, che si è sentito diffamato dalle asserzioni degli articoli pubblicati.

Non entrerò nello specifico del tema ma, memore anche dell’intervista rilasciata dal giudice Cocilovo alla Stampa, è necessario riflettere molto bene prima di gridare alla minaccia per la libertà di stampa.
Io credo che chi scrive debba poterlo fare con una certa tranquillità, sapendo che è tutelato dal sistema legale del paese; credo anche che tutti i cittadini debbano essere tutelati, comprendendo in questa tutela anche il proprio buon nome, la fama e la reputazione.
Capita di sbagliare, scrivendo: si può essere imprecisi, possono essere sbagliate le note d’agenzia o può essere stata scorretta – anche sleale – una fonte. Succede. L’importante è scusarsi pubblicamente e rettificare prontamente, magari con uguale visibilità dell’articolo errato (questo dovrebbe essere un criterio fondamentale, per buonsenso ed educazione).
Questo comportamento è quanto è mancato al direttore del Giornale, lo segnala Cocilovo stesso. Nessuna rettifica, nessuna scusa. Tutt’altro.

Ora si vocifera di un provvedimento legislativo veloce per modificare la legge che costringerebbe Sallusti a 14 mesi di carcere; il direttore, dopotutto, sostiene che non deve essere rieducato, quindi le pene alternative sono inutili. E non chiederà la grazia.
Trovo molto più allarmante per la democrazia che si pensi di ricorrere a queste procedure straordinarie piuttosto che il carcere per Sallusti. E credo che la levata di scudi compatta del mondo giornalistico sia un vero comportamento di casta, maggiore di quello dei giudici – che, dopotutto, hanno impiegato sei anni a pronunciarsi!
La porta per una drastica riduzione del sistema di protezione dei cittadini è a portata di mano: davvero si vuole porre in mano a chi informa l’intera opinione pubblica. Privo di un vero sistema di freno – che deve anche prevedere il carcere, purtroppo, in questo sistema giuridico barbarico – l’agente dell’informazione diventa padrone della realtà, poiché non conta più di tanto quel che davvero è successo ma quello che i media riportano.
Non credo sia degno di uno stato civile poter diffamare sui mezzi di informazione – testate nazionali! – senza essere tenuti ad alcuna rettifica e, allo stato pratico, pagando solo una piccola multa. Magari neppure dando la notizia di quella condanna.

Si deve andare alla ricerca del giusto equilibrio tra buongusto, professionalità e dovere d’informazione: l’equilibrio non lo si trova addolcendo o rinforzando le leggi ma operando sugli attori stessi delle vicende.
Serve una profonda incentivazione al rispetto della deontologia per chi comunica, conscio che comunicare, soprattutto oggi, è creare la realtà – o quantomeno trasmetterla. Servono, in questo, anche provvedimenti interni: Sallusti forse non merita il carcere – perché no, in realtà? La responsabilità è sua, la legge la conosceva – ma di sicuro non merita di fare informazione, come non lo meritano tutti coloro che si dedicano a quel mestiere con partigianeria e menzogne, dall’una e dall’altra parte (anche la sinistra ha i suoi Feltri, Sallusti, Minzolini, Fede, etc, solo che sono meno visibili, al momento).

Ma siamo alle solite, in Italia: le leggi possono poco e grandi poteri grandi responsabilitàservirebbe il buonsenso. Vivendo in un paese in cui le prime sono eluse – e deludono – e il secondo è spesso un orpello inutile, quando non dannoso per la propria carriera – ci si sente degli illusi a sperare che le cose cambino.
Se però mi sono avvicinato a questo mondo della comunicazione anche come professione è perché credo nella necessità di una professionalità: tanto tecnica quanto morale, secondo me. Perché un buon comunicatore deve conoscere i ferri del mestiere – scrivere, parlare, raccontare – ma deve anche saperli usare con un’educazione richiesta da pochi altri compiti. Perché, non mi stancherò di dirlo, oggi chi racconta plasma la realtà. Una tale responsabilità non può che richiedere un’enorme sforzo di correttezza ed eticità.

Da un grande potere derivano grandi responsabilità

 
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Pubblicato da su 27 settembre 2012 in Curiosità, Sproloqui, Teoria

 

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New Wave & Old Style: wainting for fun


La citazione beckettiana era inevitabile, causa mente molto malata. Eppure oggi, mentre ero alla guida nel traffico del lunedì, non ho potuto fare a meno che rianalizzare un po’ la situazione ludica che mi affligge da tempo.

Non farò ampie premesse sul c.d. New Wave, corrente profondamente innovativa del panorama ludico internazionale: da The Forge in poi, l’universo indie ha suscitato riflessioni e fornito spunti teorici a tutti gli appassionati del settore. A molti ha anche cambiato il modo di giocare, ammettiamolo.
Non mi soffermerò neppure sulle teorie; non c’è tempo e non ne ho le capacità. Ho, però, letto abbastanza e mi sono un po’ confrontato sui temi, quindi non parlo “per partito preso”: soprattutto scriverò della mia esperienza, quindi si tratta di opinioni e punti di vista specifici. In quanto tali sono discutibili – perché sono opinioni miei – e dati di fatto – perché l’esperienza personale e i gusti sono miei.

La prima osservazione fondamentale è che, così come sono, i giochi “classici” non funzionano. Senza dover scendere nei dettagli tecnici di ciascuno sistema, il loro regolamento prevede un intervento umano arbitrario (il DM) che può – o deve – sovrastare le regole del gioco. Scontato che un gioco le cui regole siano fatte per essere sistematicamente violate sia fatto male. Scontato anche che assegnare il compito di “far funzionare il gioco” a una sola persona (il DM) sia deleterio, sia per lui sia per i giocatori.
Non è questione di democrazia o di “disturbi sociali” (ho letto cose orribili, al riguardo). Mi baso su un’esperienza tra persone adulte che sanno distinguere il gioco dalla realtà e che sanno mediare i conflitti interni al gruppo: si ottiene questo giocando con persone “sane di mente” e capaci di trovare un buon equilibrio. Si ottiene anche giocando a lungo assieme. E si ottiene anche dividendo le responsabilità – ma ne parleremo dopo.
Il dato di fatto rimane: i giochi classici non funzionano! E dopo anni che li provo, li riprovi, li mischi, li progetti, te ne accorgi anche al tavolo.

Ho fatto un po’ di esperienza con qualche New Wave e ne ho letti più di quanti ne abbia provati: Solipsist, Avventure in Prima Serata, Non cedere al sonno, Esoterroristi sono nel mio carniere, assieme a molte altre letture (Cani nella Vigna, Polaris, Covenant, Schock, La mia vita col padrone, Il gusto del delitto, quantomeno questi). Nessuno di questi mi ha dato granché, dal punto di vista ludico. Certo, serate piacevoli, non c’è dubbio: ma quelle le fornisce la compagnia, non il gioco. Sarebbero state ugualmente piacevoli giocando a Risiko, molto spesso. Mi piace giocare di ruolo, alcuni di questi giochi provati mi hanno dato buone sensazioni ma niente di più. Nessuna perla, nessuna illuminazione, nessun divertimento profondo.
A leggerli – a volte anche a giocarli – ho invece provato una profonda noia, un’enorme frustrazione da limitazione e un’allergia all’intellettualismo malcelato degli autori.
Opinione personale, ci mancherebbe, e pure ingiusta perché mette nell’unico vassoio esperienze molto diverse: ma ai fini di questo post devo correre un po’ per spiegare la mia posizione prima di trarre conclusioni.

Veniamo alla terza osservazione: perché gioco di ruolo?
Perché mi piace lavorare di fantasia, mi piace partecipare a storie intriganti, eroiche, epocali… storie “da romanzo”, le chiamo io. E mi piace farlo in compagnia.
Ho iniziato per questo motivo: e, avendo iniziato con D&D, non potevo che trovare terreno – teoricamente – florido. Quello che cerco nel GdR, quindi, è questo: una buona storia, un sistema che consenta di raccontarla, molta fantasia, azione, divertimento, humor, interpretazione del personaggio, spessore carismatico, storie “di ampio respiro” e via dicendo. Quello che promettono moltissimi giochi classici, in pratica: fatevi un giro sulla quarta di copertina di D&D e capirete cosa intendo.

Dov’è l’ennesimo problema, allora?
I classici non mantengono ciò che promettono!
Ammesso che il sistema matematico regga – cosa rara, eh – rimane l’incoerenza di fondo e l’assegnazione di enormi responsabilità gestionali a una sola persona. Essendo una persona, oltre a sbagliare, ha delle oggettive difficoltà a comprendere i gusti del gruppo, a mediarli, a soddisfare le esigenze di tutti – ammesso che queste esigenze combacino con gli assunti di base del GdR e non è scontato: se al tavolo c’è chi gioca solo per “menar le mani” con il suo ranger, già si è fuori strada – e ne consegue solitamente un fiorire di tensioni e incomprensioni che portano inevitabilmente a rendere non ottimale l’esperienza di gioco.
D’altro versante del monte, però, l’esperienza dei New Wave è, per come ho provato e visto, limitante e limitata. Fanno molto bene una singola cosa – per la quale sono stati progettati – ma a quello si fermano. Sono focalizzati all’estremo, ineludibilmente chiusi su un singolo tema/argomento struttura.
C’è un gioco per menar le mani nei dungeon, uno per narrare tragedie, uno per i “primi contatti” a tema fantascientifico, un altro per le tematiche investigative. Insomma, una pletora di strumenti molto precisi, incapaci di funzionare al di fuori del ristretto campo di azione. Un pregio ma anche un enorme limite oggettivo. Per l’esperienza che cerco io dal GdR è un limite che rischia di essere invalicabile.

Rileggendo quanto scritto, ripensando quanto supposto, c’è una sola conclusione: a me serve un gioco classico – quindi non focalizzato, quindi ampio, quindi capace di mille storie e stili diversi – che però funzioni. Mi serve quello che non c’è: un D&D che mantenga le promesse, un Maghi che non deluda, un Legend of the Five Rings che raggiunga il suo obbiettivo.
L’attuale panorama ludico non sembra prevedere nulla del genere.
La soluzione – tampone ma quantomeno funzionante – risiede nell’adottare la tecnica sviluppata in questi ultimi anni: un gruppo ben affiatato, con gusti analoghi o quantomeno molto compatibili (anche a livello di storie, trame e stili di approccio al gioco) che lavori coordinato. Nessuna centralizzazione del DM, decisioni condivise da tutti per ogni aspetto del gioco, uso dell’intelletto al tavolo e molta pacatezza.
Certo, rimane che il prodotto di partenza non è ottima, l’osservazione dei generatori di giochi indie permane. D’altronde non devo occuparmi di ricerche sociologiche o di sviluppare teorie: devo giocare di ruolo. Se ci riesco, spingendo il regolamento ma coordinandomi con degli amici, non ci vedo nulla di male.
E non ho vie di scampo: a me piace l’idea di D&D, l’intuizione originale di quello stile di gioco. Quello per me è il giocare di ruolo che cerco. Francamente  raccontare la sottomissione e la ribellione a un padrone… beh, no grazie. E neppure mi interessa un gioco interamente focalizzato sui dungeon. Voglio poter massacrare orchi questa sessione, discutere con re, principi e jarl la prossima, indagare sulla sparizione di un bambino quella dopo e attraversare pericolosi antri di streghe e incubi tra un mese. Con lo stesso personaggio, con lo stesso gioco, con lo stesso tavolo.

Finirà che il gioco dovrò scrivermelo.

 
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Pubblicato da su 25 settembre 2012 in Curiosità, Diari, Giochi di Ruolo

 

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Nucleare e pena capitale: due facce della stessa Italia


Nelle due ore che ho trascorso in piedi, ho già incrociato due notizie interessanti e meritevoli di commento; La Stampa annuncia che il costo delle esecuzioni capitali negli USA è cresciuto, grazie anche a rigide posizioni italiane, e questo potrebbe influenzare il processo di abolizione in molti stati. Il Fatto Quotidiano riporta, invece, l’appello di un centinaio di scienziati italiani che chiedono al Presidente del Consilvio Mario Monti di ripensare la decisione referendaria sul nucleare.

La prima notizia è interessante e, addirittura, sembra una buona notizia. Ad analizzarla meglio si capisce che, invece, è veramente pessima: ancora oggi, l’applicazione dei diritti umani è strettamente vincolata a motivazioni economiche, tanto che la vita di esseri umani è appesa al bilancio dello stato-assassino che li ha condannati a morire. Pessimo davvero se è necessario ricorrere a pressioni economiche perché un paese che si definisce civile – ma non ritengo civile alcun paese dotato di pena di morte o che lotti contro un sistema di sanità pubblica – ponderi con maggior attenzione il rapporto costi/benefici delle esecuzioni capitali.
Penso sia il frutto del capitalismo estremo che abbiamo raggiunto in questi anni, parallelo alla monetizzazione del diritto al lavoro che stanno cercando di imporre all’Italia. Ora anche il diritto alla vita potrebbe diventare una questione di denaro.
Ho il voltastomaco… perché, al di là del singolo contesto, significa che la degenerazione morale (capitalistico-liberale) è in corso e rischia di travolgerci tutti con effetti assolutamente impensabili, non immaginati e, mi auguro, tutti sulle spalle di chi il capitalismo lo appoggia.

Veniamo alla seconda notizia: questa suona di ridicolo. Sembrerebbe una burla ma è datato 2 aprile, non 1 aprile. Tendo quindi a crederci.
Ora, non dovremmo preoccuparci troppo: il referendum popolare blinda l’argomento per un po’, quindi non ci sarebbe da temere. Ma siamo sicuri che al presidente Monti interessi davvero un referendum democratico, non espressione degli interessi bancari, industriali, borsistici ed economici? E siamo sicuri che non riesca anche a influenzare la Corte Costituzionale, l’organo che dovrebbe vigilare sul rispetto della volontà popolare? Una bella violazione dell’Articolo 1 della Costituzione sarebbe una splendida ciliegia sulla torta di distruzione dei diritti dei cittadini, di cui Monti potrebbe vantarsi tra i colleghi. Con stile e garbo, certo, non la sguaiataggine di Berlusconi, ci mancherebbe solo.
Ma, in definitiva, per noi cambierebbe qualcosa?

Due notizie, qualche minuto e un po’ di tristezza e preoccupazione in più.
Sono sinceramente preoccupato dalla deriva che sta prendendo il nostro paese – il globo, addirittura – perché vi vedo la negazione di tutto ciò in cui credo. E credo, in definitiva, che ci vorrebbe meno attenzione all’economia e più attenzione all’umanità, a noi poveri esseri umani, tra noi poveri esseri umani. Non ciascuno a sé stesso, bensì ciascuno al suo vicino: ci affidassimo a chi è nostro compagno di viaggio, ci affidassimo tutti in questo modo, non potremmo che vivere in un mondo dove la nostra felicità sarebbe al centro. Nel sistema capitalistico, la mia felicità è al centro delle attenzioni di una persona: me. Nel sistema cristiano, la mia felicità è al centro delle attenzioni di milioni di persone: tutti quelli che mi sono vicini. Come non vedere un miglioramento?

 
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Pubblicato da su 2 aprile 2012 in Curiosità, Politica, Sproloqui

 

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Funkestein: musica savonese alla ribalta


Non mi sono quasi mai occupato di musica sul blog – è noto ormai che io ascolti perlopiù Baglioni – ma oggi farò un’eccezione, del tutto savonese.Racconterò qualcosa dei Funkestein, brevemente perché preferisco lasciar parlare la loro musica.

Per quanto non sia un intenditore musicale – e a dire il vero abbia un orecchio pari a quello di un coccodrillo sordo – raccontare di un gruppo savonese che si affaccia con una produzione propria, e gratuita, rappresenta una interessante diversione dai temi solitamente noiosi e permalosi del mio blog.

Panissa Funky, album e brano centrale, prendono il nome da un piatto locale, geniale, gusto e, soprattutto, fritto. Tradizione savonese al centro dell’intero percorso musicale, verrebbe da dire mentre si ascoltano i brani, perché è proprio di Savona che raccontano nei passaggi.
Musicalmente, come dice una recensione online, è un gruppo che “si dedica ad un funky rock sporcato da influenze blues, latin e swing“: una sonorità che risponde tutto sommato alla natura multiforme delle città di mare.
I testi, poi, raccontano veramente di questa città e dei suoi abitanti: c’è spazio per sorridere – belin! – per riflettere, passando da un brano all’altro. Citare sia il Letimbro, torrente savonese, ricordare la farinata di ceci e raccontare della generazione dei trent’enni in un unico album non è cosa da poco.
Ne risentiremo parlare, mi auguro, perché narrare – e cantare – la propria terra è cosa buona e giusta. Per questo vi invito anche ad ascoltarli, partendo dal myspace, che contiene i brani del primo album.
Buon ascolto… e buon commento!

 
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Pubblicato da su 14 marzo 2012 in Curiosità, Poesia

 

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Odifreddi e il Metodo Storico: due sconosciuti


Cade a proposito con i miei studi un articolo di Messori datato 18 dicembre e indirizzato al “simpaticissimo” Pier Giorgio Odifreddi, professorino di matematica con la passione per la religione altrui. PGO non smentisce la sua competenza e si dimostra, ancora una volta, personaggio dotato della capacità di combinare le uscite a sproposito più inverosimili della storia.

La disquisizione mi riguarda da vicino non per motivi di fede ma per questioni di metodo storico; proprio mentre mi sto preparando per un esame di “fonti e metodi della storia contemporanea”, assistere a un brevissimo dibattito di metodo – seppur monocorde e giornalistico – fa bene e tiene accesa la spia sulla necessità di verificare le fonti.
Cos’è successo a PGO? Un errore comune a chi non è del mestiere – e il problema è che spesso lui fa tutt’altro che il suo mestiere, il matematico – e non ha pratica con il metodo della ricerca storica: non ha verificato le fonti.
Nello scrivere l’introduzione a un libro su Lourdes e sulle apparizioni, si è limitato a convenire che Bernardette sarebbe stata “imboccata” dal parroco Peyramale; peccato che quel parroco di campagna non ne volesse sapere delle apparizioni della Madonna, che fosse stato avvertito solo dopo la tredicesima di queste, che accettò il miracolo solo due anni dopo. L’ostilità iniziale di ogni gerarchia ecclesiastica locale per i toni miracolistici è nota a tutti coloro che si occupano della materia, atei, laici e sacerdoti; dubito che PGO abbia dimentica tutto ciò che ha imparato negli anni trascorsi in seminario. Il caso di Lourdes al riguardo non si è distinto affatto; a convenirne non sono i cristiani o i matti, ma gli storici, anche quelli di professata fede marxista. Non serve credere alle apparizioni per affermare che quel parroco non voleva saperne niente e che le apparizioni furono a lungo un elemento di devozione popolare, senza alcuna ratifica ufficiale della Chiesa. Si tratta, in verità, di fare solo un buon lavoro da storico, senza emetter giudizi; limitarsi a questo neppure significa riconoscere la soprannaturalità del fenomeno o appoggiare la linea credente.

Lo storico non si erge a giudice e non emette pareri; ricostruisce, basandosi sui documenti – che cambiano in base al periodo – e cerca di dare una spiegazione razionale, scientifica. Non è un teologo e neppure un giornalista: non deve forzatamente destar scalpore nel lettore e neppure ribadire posizioni teologiche di partenza. Deve narrare “l’uomo attraverso il tempo”.
PGO – che storico non è, come neppure teologo – è caduto nell’errore più marchiano di chi si diletta con la storia senza padroneggiare gli strumenti del mestiere; ha pensato che il contrasto diretto con l’opinione a lui opposta fosse l’unica linea percorribile, sempre e comunque. Non ha riflettuto sulla possibilità che quell’evento non avesse alcuna relazione specifica con la validità (cristiana) dei fatti di Lourdes: ha preferito, come suo solito, criticare tout court la fede cristiana, senza usare un criterio razionale.

Questo mi preoccupa più del resto; se a muovere un docente universitario di matematica è l’astio e non la razionalità della scienza, tanto più quando si professa seriamente e completamente razionale, abbiamo a che fare con un bel problema. Di coscienza, di serietà, di coerenza. E di mentalità adattabile: perché chi contesta l’irrazionalità della fede non può poi scadere nell’agire sul presupposto dell’odio irrazionale e lasciarsi trascinare da quel sentimento nello scrivere. Si troverebbe a peccare quanto ciò che avversa, anzi, di più: perché chi ha fede non si ripara dietro lo scudo della razionalità, a differenza del finto razionale.

Simmetria storiografica grandiosa.

 
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Pubblicato da su 4 gennaio 2012 in Curiosità, Teoria

 

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Exalted: road to Hell…


Dunque, Exalted.
Nel pieno della stagione di crisi del fantasy-che-piace-a-me, Exalted diventa un gioco ampiamente accettabile e francamente divertente.
Come dissi anni fa, i gusti cambiano… anche in materia di giochi. Cambiano senza stravolgersi, certo, quindi non mi troverete a tessere le lodi della Quarta Edizione di D&D; d’altronde non ho mai detto che Exalted fosse pessimo, solo che poteva essere perfezionabile e che alcune sue sfumature non erano di mio gusto.
Approfitto del giorno di festa per parlare un po’ di Exalted, di come lo vedo io, di come suona secondo gli altri. Di cosa toglierei o modificherei, oltretutto. Materiale ce n’è in abbondanza.

Il primo punto su cui trovo criticabile Exalted è l’atmosfera orientaleggiante da bimbominkiafilonipponico.
Credo che dagli anni ’80 subiamo eccessivamente il fascino della cultura orientale, osannandola e inserendola a forza nella nostra vita. Cartoni giapponesi, oggetti giapponesi, cibo giapponese (o cinese), massime orientali, fumetti (terrificanti!) giapponesi…
La permeabilità della culture è qualcosa che apprezzo e sponsorizzo in prima persona; la esterofilia ignorante no. Il 95% dei fautori di questa moda non ha capito una mazza della mentalità orientale – tant’è che i manga ce li propinano come prodotto infantile, perché da noi i cartoni sono per bambini, salvo tagliare le scene di sesso: indagare e scoprire che si tratta di filmografia per pubblico normalmente adulto richiedeva troppi neuroni – e si bea della conoscenza di dieci parole in giapponese, del cuscino da abbraccio dell’eroina dei manga, della tazza di Dragonball.
Exalted, in quanto americanata, è l’esatto approdo ruolistico di questo processo: estetica filo-orientale (a partire dai caratteri delle pagine) senza l’impegno della comprensione reale del modello sociale che sta alla base della cultura che si vuole imitare. Insomma, l’idea mi fa un certo ribrezzo… il che non aiuta il primo impatto. Se poi il setting si rivela ben poco orientale a leggerlo, ben curato e valido (tra i migliori), l’idea iniziale che se ne fa l’utente casuale che guarda la copertina e sfoglia le pagine è di un prodotto mangoso. Ho subito anch’io quest’effetto, mi ci sono volute settimane di lettura del manuale per riprendermi.
Nel campo, a dire il vero, preferisco allora Qin o Legend of the Five Rings: ampiamente orientali ma quantomeno informati. Se il primo ha un’affidabilità storica ammirevole, il secondo sta al Giappone come D&D sta al medioevo europeo… e va bene così, non pretende altro. Neppure ci prova a essere mangoso: e mi piace per quello.

Partiamo dal presupposto che ho interrotto la visione di 300 dopo mezz’ora perché mi stavo addormentando dalla noia. Dunque trovo eccessiva l’enfasi che viene suggerita dall’interpretazione corrente del gioco.
Non serve fare seimila giravolte per decapitare un nemico: basta un colpo netto, secco e preciso.
Non serve rimbalzare tra gli alberi per compiere un affondo: basta una corsa travolgente.
Trovo questi orpelli scenici decisamente noiosi e superflui: li uso – per questioni meccaniche che spiegherò dopo – ma non migliorano per niente la qualità della mia giocata. A dire il vero, a lungo andare la riducono! Eh si, perché a forza di doversi inventare scene “epiche”, si scade nel ridicolo o nel già visto. Allora la bellezza di un attacco ben descritto, particolarmente spettacolare, va a farsi benedire, perché tutti gli attacchi tendono a quello. Decade l’eccezionalità della scena.
Insomma, un “effetto supersayan”!.

Veniamo a una critica tecnica: trovo assurdo che la mia abilità di narratore influenzi l’abilità in combattimento del mio personaggio. Viola, a mio modo di vedere, l’assioma di base del mio personaggio: lui può cose assolutamente impossibili a me e non serve che io sappia farle.
Per chi non conosce Exalted, un rapido dettaglio: descrivendo l’azione del proprio personaggio, si possono ottenere dei dadi bonus da aggiungere alla pool originale.
Comprendo l’intenzione dello sviluppatore: conferendo un bonus, si esorta anche il giocatore più banale a evitare il classico “lo attacco” e a far fiorire la narrazione. Altra soluzione americana, devo ammettere: da un paese in cui l’evasione fiscale è bassa perché le pene sono alte, questo posso aspettarmelo. Ma prediligo anche qui la via scandinava: l’evasione è bassa perché i servizi elargiti con le tasse funzionano e, soprattutto, perché la popolazione è culturalmente educata a pagarle.
L’analogia è quindi diretta: un sistema che debba ricorrere a simili mezzucci per incrementare la qualità del gioco è un sistema (o un gioco) fatto male. Quantomeno in questo campo, la mia è una critica tassativa: sono un fan assolutista della differenza tra giocatore e personaggio. Posso essere il peggior oratore del mondo ma ho lo stesso diritto di Silvio Berlusconi di interpretare lo zenith più socievole del pianeta. E ho il diritto di tirare il suo stesso numero di dadi, perché il personaggio – giustamente – non sono io. E non è lui.
In fin dei conti, le acrobazie ingabbiano il gioco, costringendo sempre e comunque le persone al tavolo a forzare la descrizione, anche quando non è debitamente ispirata (non raccontiamoci che è possibile evitare, perché quei due dadi extra facilmente aggiungibili sono lì apposta!). Sarebbe meglio per il gioco e per la giocabilità che la descrizione non influenzasse l’azione di gioco: emergerebbe naturale quando ispirata, resterebbe un “lo colpisco con la spada, menando un fendente” quando meno ispirata, colorerebbe veramente il gioco con la sua straordinarietà eccezionale!

Ultima negatività: il sistema di combattimento è veramente macchinoso.
Non è un difetto assoluto, posso passarci sopra perché, a ben vedere, funziona. Sarebbe bello averlo più semplice (Scion in parte lo fa… ma Scion ha un paio di milioni di altri difetti, ben più gravi!), ma si sopravvive anche così. Lo trovo un ostacolo all’immediata fruizione del gioco ma non un danno permanente.
Certo, poter risolvere un combattimento importante in meno di due ore e mezza lo troverei incoraggiante, eh!

A valle di tutto questo, rimango della mia idea generale: meglio D&D (3.5). Molto meglio.
Tuttavia, in assenza di possibilità di giocarlo e nell’ottica che a D&D ho giocato per anni e cambiare un po’ fa solo bene, Exalted è un’ottima esperienza. Rimangono e permangono i suoi problemi – o i miei problemi con lui. Ma nell’equilibrio di un gioco di ruolo sono del tutto sopportabili, anche perché nulla è perfetto.
Oltretutto, unico vero motivo: giocando a Exalted mi diverto. Significa, a mio modo di vedere, che va bene così. Mi diverto anche quando gioco a D&D 4Ed, per la compagnia e per il casino, però. Al limite per la trama. Non per il gioco in sé. Exalted compie già quel “passo in più”: ha i suoi difetti, ma tutti i giochi hanno i loro difetti, anche Mage (lo ammetto a malincuore). Certo, si potessero eliminare alcune cose… soprattutto le acrobazie…

 
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Pubblicato da su 8 dicembre 2011 in Curiosità, Giochi di Ruolo

 

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Raccontare il fantasy – ispirazioni da giocatore di ruolo


Mi sono rimesso a scrivere, dev’essere colpa della tesi – o del ginocchio.
Il fatto è che l’ispirazione iniziale giaceva da tempo tra i ricordi ma solo la recente campagna molto fantasy ha dato qualche spunto in più per l’avvio della trama.
Non so ancora cosa pensare di quel che scrivo, in verità; devo capire se sono tagliato per scrivere – inutile dire che mi piacerebbe – e su cosa dovrei lavorare per migliorare.

Il primo capitolo è scritto, lo pubblicherò qui tra qualche tempo… quando sarà quantomeno pubblicabile. Per stasera godetevi solo l’anteprima, i due paragrafi iniziali (e macabri, ma andrà peggio proseguendo… tranquilli!).
Trattasi di un fantasy molto classico, forse troppo: avrà accenni di differenziazione più avanti, tranquilli. Ce ne sarà per tutti.
E avrete il vostro ruolo nel rileggere e nel commentare quel che pubblicherò, tranquilli. Un blog serve proprio a questo.

I

I banditi e l’oste

Guardiavalle

Il rumoreggiare deluso della folla lasciò poco compiaciuto il boia; era stato troppo abile con i nodi e l’esecuzione era durata sicuramente troppo poco. Il collo del con­dannato aveva ceduto al primo strattone, con uno STOCK udibile sopra il vociare soffuso della piazza, lasciando il corpo penzoloni. Nessuno scalciare, nessuna agita­zione in preda al panico del condannato appeso; nessun pathos nel pubblico, nes­sun urlo o commento. Un breve colpo efficace prima della fine, un’esecuzione pre­cisa e seria, purtroppo per nulla spettacolare. La folla amava assistere al dibattersi del condannato.
Lord Dantalion, l’osservatore del Consiglio, non aveva emesso un suono, ma se ne capiva un tenue disappunto. Probabilmente il notabile non aveva mosso un singolo muscolo ma il boia ne aveva percepita la delusione come un brivido leggero lungo il collo. Tuttavia la dimostrazione di competenza che aveva appena messo in campo tranquillizzava il massiccio uomo, che stava ora di fianco alla forca, braccia con­serte, in attesa che la folla iniziasse a smobilitare. Ci sarebbe voluta ancora una mezz’ora, durante la quale qualche sporadico manifestante avrebbe insultato il ca­davere, scagliando magari ortaggi marci assieme agli epiteti da osteria. Le famiglie stavano già lasciando la piazza, lo spettacolo vero era finito. Nonostante la giornata invernale fosse gelida, avevano assistito all’esecuzione più di trecento persone, va­lutandole a occhio, una porzione non indifferente degli abitanti del villaggio.
Smontare tutto dopo che il rapido defluire della folla lo lasciava sempre stremato, perché i ragazzi lavoravano con molta meno energia; la festa era finita e con essa il brio e l’anticipazione. Lo attendeva un pomeriggio di duro lavoro.

Elmiri Dantalion mantenendo lo sguardo fisso sulla folla che s’era zittita quando il boia aveva dato mano alla botola, facendo precipitare il traditore verso la morte. Voleva evitare di dimostrare tutto il disprezzo che provava per quel cumulo di voci, umori, odori e arti difformi, ineleganti; gli ci volle tutto l’autocontrollo di cui era ca­pace per non lasciar trasparire nulla dei suoi sentimenti. La sfinge del Consiglio non poteva lasciarsi sfuggire un solo muscolo, non in quelle condizioni. Avrebbe voluto poter arricciare leggermente le labbra in un sardonico sorriso, osservando compia­ciuto il ragazzo lasciare questo reame lentamente, dibattendosi e soffrendo ogni istante, ma non era stato possibile. Rassegnarsi era l’unica via ragionevole, non po­teva avere quella piccola soddisfazione. Ne avrebbe avute altre.
L’esercito dell’Umbar si trovava a non più di due giorni di distanza: era un vero esercito, con tanto di viverne, draghi e strutture d’assedio, non le piccole truppe di ricognizione di Guardiavalle, miseri umani impotenti di fronte alla forza militare di uno stato che stava erigendo un nuovo impero. Quell’impero sarebbe stato edifi­cato su ossa umane, non c’era dubbio, e Dantalion era desideroso di contribuire unendosi alla causa del vincitore. Non tutti nel Consiglio la pensavano come lui, ma al momento opportuno avrebbero chinato il capo innanzi alla maggior forza dell’Umbar. D’altronde, che altre scelte poteva avere una piccola rocca di confine, indipendente e  governata da un consiglio di mercanti ed ex mercenari? La piccola accademica magica di mastro Lotus era poco più di un gruppetto di personaggi pit­toreschi e in continua lite tra loro per questioni ben poco reali. Le guardie cittadine si occupavano più di ubriachi, mentre le truppe più addestrate – quelle che sorve­gliavano davvero le mura del passo e che rendevano Guardiavalle un valico difficile da superare con la forza – erano fedeli a quei membri del Consiglio più favorevoli all’Umbar. Dantalion non era affatto l’unico a vedere enormi vantaggi nel cedere il passo alle truppe di Vora Kelm.


“Lascialo appeso. Che vedano i corvi al lavoro su un traditore”.
Il boia annuì a Dantalion rimanendo in silenzio.
“E toglili il cappuccio”.
Quest’uomo ha gusti macabri, veramente macabri.
Il pensiero si affacciò per un istante nella mente del boia, ma era un professionista della morta e aveva assistito a esecuzioni ben peggiori. Insistere sul corpo privo di vita non avrebbe potuto nuocere al suo possessore, ormai, e sicuramente avrebbe dissuaso qualche emulo della resistenza a farsi avanti.

Certo, c’era la possibilità che il corpo rimanesse dissacrato e l’anima non trovasse riposo, non potesse riprendere il suo ciclo. Tuttavia preoccuparsi di queste cose era materia da sacerdoti, non da esecutori. Il boia gridò un paio di insulti ai suoi ragazzi di fatica, dando poi le istruzioni su come smontare il patibolo senza rimuovere  palo, corda e cadavere, che dovevano rimanere al loro posto.
In città avrebbero avuto una settimana interessante e il messaggio per la resistenza sarebbe stato abbastanza chiaro.

 
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Pubblicato da su 2 ottobre 2011 in Curiosità, Libri, Sproloqui

 

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