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Diritti, costi, benefici… e sogni!


Sono cresciuto pensando che i diritti dovessero essere gratis; dopotutto, un diritto a pagamento cessa di essere diritto, secondo me, e diventa bene superfluo.
Lo scontro con la realtà può essere traumatico – in qualche misura lo è sempre – ma di solito si sopravvive; moltissimi, però, si disilludono. Dal mio canto, invece, è rimasta la pervicacia e la testardaggine del sognatore, di colui che ai diritti ci tiene davvero. E che non si lascia abbindolare senza lottare.
Poi ci si sente soli, capita a tutti; guardandosi attorno si osservano amici, persone con le quali si pensa di condividere opinioni e spunti, cedere al duro mondo esterno e scendere a patti con un sistema che nessuno di noi apprezzava davvero. Una storia che ricorda un po’ una canzone di Gino Paoli, lo so, ma credo che, bene o male, in molti l’abbiano vissuta.

Stasera sono stato felice di sentire Gino Strada parlare di sanità pubblica; mi ha donato un sospiro di sollievo non da poco, devo ammetterlo. Strada ha ribadito con il buonsenso che lo contraddistingue la necessità di confermare e potenziare il sistema sanitario nazionale e l’urgenza di renderlo realmente gratuito. Per tutti. Ed eccellente.
Ha parlato di sprechi e di qualità, ha parlato di Emergency come modello esportabile – a basso costo – e l’ha fatto con la competenza del tecnico e con la passione del sognatore. Di quasi tre ore di programma made in Santoro, le parole di Strada, abbastanza laterali sull’argomento principale della trasmissione, sono quelle che mi hanno colpito davvero. Hanno centrato nel segno.

Il motivo è da trovarsi nell’autorevolezza della voce. Non è stato un proclama politico di un demagogo sinistroide (Vendola?) o di un marxista fuori dal mondo reale, ancora convinto che teorie economiche ottocentesche che provano a prevedere la storia siano attuabili e realizzabili. Gino Strada ha parlato armandosi di buonsenso e di competenza, sicuro sull’argomento perché lo conosce e perché ha messo in pratica in prima persona quel che predica. E nessun marxista può dire altrettanto – per fortuna.
Allora, se anche una persona di buonsenso, una persona pienamente ancorata nella nostra realtà e nel contesto, che opera in giro per il mondo da decenni, coltiva sogni come quelli di questo misero trentenne di provincia, c’è speranza. E non si tratta di una speranza politica, ideologica o teorica: si tratta di un approccio realistico, praticabile e perseguibile. Una strada su cui incamminarci e che ha tutte le caratteristiche della via reale.

Non voglio soffermarmi su Strada e sulla sanità – gratuita – perché non è l’argomento del post; voglio piuttosto vertere sulla necessità di sognare e di pensare a come cambiare davvero il mondo.
A piccoli passi. Con buonsenso/senso comune (criticato). Senza un’utopia finale.
Diamo tutto lo spazio a Popper, se lo merita; ma diamo anche spazio ai sogni e alla voglia di realizzare questi sogni. Non dobbiamo essere indignati dalla realtà, ha detto don Ciotti, ma infuriati. E dobbiamo voler cambiare questa realtà, in meglio. Per tutti.
Molto scout tutto questo, perché si tratta veramente di lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato. E allora facciamolo, invece di lamentarci del governo, dei politici, del sistema. Piantiamola di cedere e facciamo avanti le proposte che veramente ci stanno a cuore. Piuttosto litighiamo, ma eliminiamo il silenzio.

 
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Pubblicato da su 23 dicembre 2011 in Politica, Sproloqui, Teoria

 

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Articolo 18: diritti e proposte


L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori – quello che impedisce il licenziamento senza una giusta causa – è al centro di numerose polemiche, che stanno caratterizzando queste giornate. Dall’apertura della della Fornero agli esimi pareri di numerosi giuslavoristi, si sente vociare circa la necessità di una riforma di questo articolo e, ancor più, della sua applicazione.
Posso dire di essere d’accordo sulla necessità di una severa riforma della disciplina, non c’è alcun dubbio; ritengo, tuttavia, che la mia opinione sia saldamente differente da quella della Fornero, degli imprenditori e di molti politici/politicante che si dicono “di sinistra”. Estremamente diversa.

Ci sono dei criteri di fondo che nella disciplina del lavoro non possono mai essere scordati. Il primo è il diritto al lavoro; il lavoro – non l’impresa – è il fondamento su cui è costruita l’Italia. La nostra Costituzione – e ogni volta che la rileggo, trovo che sia un documento programmatico di una bellezza, profondità e sensibilità sociale tanto affascinante e condivisibile, quanto spregiudicata – sancisce questo elemento con l’Articolo 1 e ribadisce l’importanza del lavoro, tanto da farne un diritto, con l’Articolo 4.

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ho sottolineato la seconda parte perché credo sia una caratteristica splendida di questo articolo: ci dice non solo che lavorare è un nostro diritto ma che spetta allo Stato fare in modo che ci sia lavoro per tutti. È un espresso compito della Repubblica produrre quelle condizioni economiche e sociali che consentano a tutti di avere un lavoro e, attraverso questo, mantenersi dignitosamente (lo aggiunge il comma successivo): sarà anche una Costituzione criptocomunista ma ne sono innamorato!
Credo che non ci si debba arrendere sulle difficoltà di attuazione e, pertanto, credo che non si debba cedere in materia di Articolo 18. Semmai bisognerebbe rilanciare.
Bisognerebbe rendere l’Articolo 18 il grimaldello con cui forzare la serratura del “sistema capitalistico” e rovesciare un’ottica talmente sorpassata da risultare inadatta alla Costituzione. E, badare bene, non è la Costituzione a essere antiquata, bensì quest’atteggiamento neoliberistico che nasconde, assieme a una buona dose di egoismo, classismo ed elitarismo, una sana dose di malvagità sociale. Penso, in verità, che la Costituzione sia uno splendido programma su cui dobbiamo camminare, con perseveranza e costanza, senza dimenticare gli errori del passato ma tenendo bene a mente che la destinazione è sacrosanta.

Cosa significa questo, in pratica? Che, tutto sommato, il modello di flexicurity mi piace e potrebbe essere convincente. Non ho mai nascosto di essere un sostenitore del modello scandinavo – una socialdemocrazia che tenga al centro i lavoratori e i loro diritti, la garanzia che possano vivere del loro lavoro, sempre – e che mi piacerebbe assistere alla sua implementazione in Italia, pur ritenendola estremamente difficoltosa. Il testo di Ichino al riguardo è abbastanza illuminante e abbastanza condivisibile: forse troppo. Sembra quasi di leggere il Paradiso dantesco, per certi aspetti.
Non sono, invece, d’accordo sul metodo di attuazione. Non credo che il primo passo sia incidere sull’Articolo 18: credo, invece, che il primo passo sia incidere sulla contrattazione a tempo determinato e sul precariato. La garanzia va data ai lavoratori, non alle imprese; e la storia che senza imprese il lavoro non c’è, non regge. L’impresa deve, come i lavoratori, adeguarsi alla regolamentazione, volente o nolente; allo stesso modo dei lavoratori, al cambiare delle regole può adattarsi o estinguersi. Essendoci (molti) più lavoratori che imprenditori, il buonsenso dice che si debbano tutelare questi cittadini, proprio perché sono un’ampia maggioranza – il che non vuol dire affossare l’impresa, ovviamente, ma far pagare il giusto dazio. Dopotutto, un imprenditore che non sa stare alle regole dovrebbe finire in mezzo a una strada quanto un lavoratore licenziato, quindi…
Cancellati i contratti precari, si può passare alla costruzione di un modello a garanzia occupazionale, ma flessibile, può essere una risposta. Ma il primo passo non deve essere l’eliminazione delle garanzie, bensì la loro estensione; nel secondo tempo andrai a incidere sulla struttura del contratto e non è detto che l’intervallo debba essere lungo. Forse solo il tempo necessario per stabilizzare il mercato occupazionale.

In fin dei conti, si torna a quanto dicevo e scrivevo di Popper. Lui sosteneva che, in una società aperta, bisognasse dare la priorità alla libertà sull’uguaglianza, perché tra non liberi non può esserci vera uguaglianza. Io ho ribattuto, di contro, che ritengo entrambe massimamente importanti: credo che la Costituzione vada per questa strada, ne sono ragionevolmente sicuro. Non possiamo prescindere dall’uguaglianza per costruire vera libertà. Non possiamo e, anche se potessimo, non dobbiamo volerlo. L’alternativa è rimanere in un mondo di ineguaglianze e scivolare lentamente lungo una china che non mi piace affatto.
E, sinceramente, la ben poca chiarezza della sinistra – del PD in particolare – nel fronteggiare le proposte riguardo la distruzione dei diritti dei lavorati, suona come un allarme che dovremmo seguire con maggiore attenzione. ll liberismo ha smantellato la nostra società, ha condotto l’umanità a un nuovo stato di barbarie; ha anche portato a importanti conquiste, ci mancherebbe. Ma non possiamo dimenticare che le conquiste sociali sono figlie più delle lotte marxiste – e non sono marxista – che della struttura liberal-capitalistica della nostra società (oltre che della dottrina sociale della Chiesa: non la dimentico mai). Forse è ora di cambiare non solo le carte in tavola, ma il gioco stesso: serve un gioco senza un banco che vinca sempre, tra soggetti sempre e comunque uguali.

 
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Pubblicato da su 22 dicembre 2011 in Politica, Sproloqui, Teoria

 

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Dottore


Il blog è deserto da alcuni giorni non a caso, è dovuto alla mia assenza preventivata. Ho avuto dei buoni motivi, comunque.
Ve lo assicuro!

Ieri ho finalmente conseguito la laurea in storia, dopo un bel po’ di anni di studio. Una piccola soddisfazione ma una tappa importante per segnare il passo. L’argomento, penso l’abbiate ormai scoperto tutti, era Popper e le critiche agli storicismi: si, un bel po’ di filosofia e non troppa storia,a  prima vista, Eppure, come dicevo ieri alla commissione, comprendere le teorie di Popper e gli storicismi è fondamentale per leggere dovutamente la storia contemporanea. Il XX secolo, dopotutto, è stato intriso di storicismi, basti pensare al marxismo e ai tentativi di attuare nella realtà le teorie di Marx.

La pausa del blog non durerà moltissimo, non abbiate paura. Ci sono già un paio di post che aspettano solo di uscire – argomenti ce ne sono parecchi, non temete – e credo che avranno spazio già da oggi pomeriggio o, al più tardi, domani. Non sono certo il tipo da ubriacarsi e sparire per settimane in coma etilico: mi leggerete di nuovo molto presto.
Quantomeno il mondo circostante aiuta, fornisce spunti interessanti: tra la finanziaria-furto, genitori che chiedono al tribunale di obbligare la figlia ad abortire e piccole novità scientifiche, il materia non manca.

Ora, ovviamente, potete chiamarmi dottore… anche sul blog!

 
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Pubblicato da su 13 dicembre 2011 in Diari, Sproloqui

 

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Cambio di Paradigma


Ho passato molto tempo in questi giorni a parlare con parecchie persone riguardo la crisi economica – o quella politica – che il nostro paese e tutto l’Occidente sta attraversando. Il mio stupore maggiore è provocato dall’ampio consenso che il nome di Mario Monti sta ricevendo da più parti, comprese quelle parti che, per struttura, storia, ideali, dovrebbero aborrire le soluzioni che plausibilmente applicherà alla nostra situazione.
Messi alle strette, coloro che si son sempre dimostrati contrari a certi atteggiamenti – al capitalismo, diciamolo senza timore – hanno ammesso che servono risposte certe, risposte apprezzabili dai mercati, risposte credibili, risposte rapide. Serpeggia un giusto timore della crisi e una meno giusta credenza di certificazione univoca delle risposte di Monti: tali risposte, infatti, hanno l’unico vantaggio di essere ampiamente coerenti con il sistema economico in cui la crisi è nata e si è sviluppata. Guardacaso quello stesso sistema che, sulla carta, la sinistra dovrebbe voler abbattere.
Non criminalizzo affatto chi ammette tale priorità: è nella natura umana compiere delle scelte basandosi sull’intenzione di sopravvivere con il minor danno. Penso che anch’io, nonostante le parole, agirei sui medesimi toni, se messo davvero davanti a scelte stringenti. Siamo umani.
A stupirmi è che tutte le giustificazioni che emergono per motivare tali scelte riconducano immancabilmente alla necessità di agire in accordo con il sistema: nessuno prende in considerazione la possibilità di scelte diverse. Con tale definizione, ovviamente, non intendo soluzioni anti-liberistiche nel nostro contesto: ovviamente fallirebbero. Intendo modificare completamente il contesto, rinunciare alle regole del gioco e sostituirle con un altro. Lo sforzo immaginativo non arriva (quasi) mai, neppure tra i più abili politici della nostra sinistra (razionale) più estrema, a concepire un cambio di paradigma.

Ritornare a Kuhn per illustrare un momento così delicato momento della nostra società può suonare avventato; per me che non sono un filosofo è senza dubbio rischioso. Della sua struttura delle rivoluzioni scientifiche voglio però mantenere l’impressione, la suggestione di fondo: l’impossibilità di pensare al nuovo paradigma fino a che ci si trova in quello vecchio. Farà sorridere molti spiegare che questa suggestione deriva più dalla lettura di Crichton (Ian Malcolm, uno dei protagonisti di Jurassic Park, spiega i paradigmi meglio di Kuhn!) che da quella diretta dell’epistemologo statunitense. Eppure da lì nasce la suggestione, confermata dagli studi – più seri – di questi ultimi anni.
Il principale ostacolo a una risoluzione “di sinistra” della crisi proviene proprio dall’incapacità della sinistra di proporre linee d’azione non capitalistiche. Non solo non liberali, nell’accezione di contrarie ai grandi monopoli, agli industriali, agli imprenditori, sotto il segno delle garanzie e delle sicurezze per operai, dipendenti e ceto medio; intendo come soluzioni non capitalistiche quelle proposte che, basandosi su criteri e crismi completamente difformi dalla struttura economica attualmente in vigore, possano incidere realmente aggirando i limiti dell’attuale mercato.
Non essendo uno studioso di economia o un esperto autodidatta dell’argomento, non ho proposte reali in campo economico: eppure, nell’ammettere questa mia ignoranza, ho la presunzione di ritenere che ci sia qualcuno capace di fornire risposte del genere e azioni pratiche da mettere in campo. Mi chiedo perché, in un momento di crisi così violenta, la sinistra non faccia avanzare tali proposte e, anzi, le tenga ben segregate. Il dubbio che mi rimane è che neppure la sinistra – quantomeno quella sinistra parlamentare e politicamente ragionevole – sappia emergere da questo confine paradigmatico e portarsi al di là del liberismo e del capitalismo. Forse le accuse di una sinistra ormai completamente piegata al sistema è vero: nessun leader ha alzato la voce su questi temi o, se lo ha fatto, s’è trattato di un sussurro.

Questo discorso rischia di farmi passare per un marxista intransigente rivoluzionario: ben lungi, resto un pacato omicino post-democristiano, fieramente cattolico e fieramente convinto che, anche alla luce del Vangelo, si debba costruire una società più giusta, be difforme da quella attuale, ampiamente eretta su soprusi e privilegi. Non credo nella rivoluzione, nella dittatura del proletariato e, a ben vedere, non credo nel marxismo come sistema. Ha sicuramente aspetti interessanti, come molte altre teorie, e bisogna saper filtrare questi passaggi validi prima di gettarsi nell’applicazione. Credo però che molti passi si possano fare per migliorare la nostra società. Vorrei non essere una voce minuscola e solitaria: essere minuscolo mi sta anche bene, essere solitario no.
Mi piacerebbe che tutti quegli economisti che sanno e possono proporre alternative al neoliberismo filobancario di Monti si facessero avanti, o fossero spinti avanti dalla classe politica: per dirla alla Kuhn, siamo in una fase di “economia speciale”, quando si possono contrapporre modelli economici (e sociali) differenti, affinché uno emerga e caratterizzi il prossimo paradigma. In questa situazione, abbiamo due scelte: farci avanti ora per impedire un nuovo paradigma capitalistico liberale, o rassegnarci e passare la mano ai nostri figli. Non credo che nessuno tra chi legge oggi queste righe avrà una seconda occasione per cambiare le cose. E se l’occasione non è questa crisi, davvero nulla è un’occasione.

 
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Pubblicato da su 12 novembre 2011 in Politica, Sproloqui

 

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Renzi: punti & spunti… o punti spuntati?


Riprendo la retta via con un argomento di politica. Avrei potuto trattare la crisi e le sue conseguenze, ma credo sia qualcosa di così delicato e così centrale per il futuro del paese che voglio lasciarmi un po’ più di tempo per meditarla. Non mi allontano troppo, però: se la crisi è integralmente imputabile al sistema economico che ci controlla – non vedo come potrebbe essere altrimenti – e quindi al capitalismo/liberismo che lo Psiconano e molti altri ci propinano fin dagli anni ’80, la sinistra non fa veramente nulla per contrastare questo andamento.
Ci troviamo, quindi, a parlare di Matteo Renzi, il supergiovane sindaco di Firenze che ammalia le folle come un novello Cesare: un popolare-populista ventuno secoli dopo. Serve ordine, però, non si inizia con le conclusioni.

Mi sono documentato un po’ sul programma di Renzi, cercando di leggere soprattutto i suoi testi, le sue idee e pochissimi commenti altrui. L’elenco dei “100 punti” è stato la lettura serale che mi ha portato ieri sera tra le braccia di Morfeo (nessuna ironia, è stata una lettura interessante, anche se serotina) e ha chiarito le mie idee attorno a questo rampante ragazzo del PD (?). Ragazzo si, perché siamo quasi coetanei, solo cinque anni di differenza… e scelte un bel po’ diverse alla radice, secondo me.
Vero è che proviene dai ranghi dei giovani democristiani: ho il sospetto che le similitudini con Renzi si fermino qui, al decennio di nascita e allo scudocrociato come riferimento generale nelle scelte politiche.
S’è intuito che Renzi – al momento –  non mi piace: specifico con un complemento di tempo perché, giustamente, è giovane e può cambiare sensibilmente le sue posizioni con il passare del tempo. C’è sempre speranza: essendo poi un buon comunicatore, un soggetto come lui alla sinistra italiana farebbe sempre bene.

Veniamo a quel che davvero conta: Renzi, il Rottamatore, è stato analizzato e, a dir la verità, “rottamato” dal sottoscritto: se non Renzi, lo sono stati i suoi “100 punti”.
L’idea di un programma semplificato su cui aprire un’ampia discussione – una discussione che, tramite la Rete, coinvolga anche i giovani – è senz’altro valida: avvincente, mi spingerei addirittura a definirla. Potrei quasi impegnarmi in questo dibattito, a seconda di alcuni bivi che intendo studiare. Il contenuto del programma fin qui proposto, però, è quantomeno discutibile, se osservato con gli occhi dell’uomo di sinistra. Non a caso conosco più di una persona che, di centro o anche di estrema destra, è conquistata da Renzi e dal suo programma. Poiché non dubito della loro integrità mentale, è evidente che qualcosa non torni in Renzi.
Dicevo: mi son preso i “100 punti”, i testi del Big Bang e ho studiato come uno scolaretto elementare le posizioni di Renzi. Sono interessanti, innegabile, e molte sono veramente vincenti, sulla carta. Se devo rottamarlo, però, partirò invece dalle stonature in tema di “sinistra” che il sindaco fiorentino inanella lungo il suo percorso.
Ecco un excursus di ciò che nel suo programma mi ha colpito – negativamente: i numeri a fianco sono comodissimi per la consultazione volante del suo programma.

27. Liberalizzare i servizi pubblici locali. I servizi pubblici locali sono un monopolio d’inefficienza; bisogna liberalizzare i servizi, accorparli in poche società, abbassare i costi di gestione, ottimizzare l’uso del personale, rendere le gestioni trasparenti, allontanare la politica dalle decisioni aziendali.

Il secondo periodo lo abbraccio al volo, davvero: i servizi pubblici locali funzionano malissimo, devono essere rinnovati. Il primo no: se un servizio è pubblico, tale deve restare. Possibilmente il servizio pubblico deve estendersi ulteriormente, consentendo prezzi concorrenziali e gestendo servizi d’eccellenza per tutti. Per le tasche di tutti. Questa mania delle liberalizzazioni finisce sempre per gravare sulle tasche degli italiani, quelle già vuote: non ho ancora visto una liberalizzazione che abbia portato a un abbassamento dei prezzi.
Se liberalizziamo-privatizziamo i servizi pubblici, non accendiamo comunque la concorrenza (autostrade docet): non esiste la possibilità, tranquilli. Questo significa, in definitiva, solo meno garanzie per il cittadino medio.
Questa sparata me la aspetto da un liberale, non dal PD. Segnatevi questa frase perché tornerà.

29. Liberalizzare le assicurazioni su infortuni e malattie. Le attività svolte dall’Inail, il monopolio pubblico che si occupa dell’assicurazione per le malattie e per gli infortuni dei lavoratori svolge una funzione tipica di qualunque società di assicurazione privata. Bisogna allora aprire all’accesso dell’attività di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro da parte di imprese private di assicurazione o di riassicurazione.

Il primo pensiero a leggere questo è – scusate l’onestà – qualcosa di simile a “Ma questo si droga!”. Privatizzare l’INAIL o, in alternativa, eliminare l’obbligatorietà dell’assicurazione INAIL mettendola sul mercato assieme a tutte le altre.
Sono d’accordo sul fatto che l’attuale struttura funzioni male: è però progettata bene e deve restare intatta. La soluzione non è rivoluzionare l’assicurazione lavorativa, è far funzionare bene quella che c’è. Avete idea di cosa accadrebbe se decadesse l’obbligatorietà, vero? Fioccherebbero assicurazioni private che trufferebbero i lavoratori meno “scafati” o più disperati – toh, i giovani! – solo per abbandonarli sul più bello, quando dovrebbero tirar fuori soldi. Ottima idea Renzi, davvero.
Siamo alla seconda volta: “Questa sparata me la aspetto da un liberale, non dal PD.”

31. Mettere in competizione il pubblico con il pubblico. L’alternativa nella gestione di servizi non può essere solo o pubblica o privatizzata; è possibile creare una competizione fra una scuola e l’altra, fra sistema sanitario di un’area e sistema sanitario di un’altra area; tra un’università e l’altra, insomma all’interno di ciò che rimane pubblico. Quando l’offerta di un servizio pubblico specifico è al di sotto non solo della media, ma degli standard previsti per quel settore, bisogna trovare il modo di penalizzare il responsabile della struttura o addirittura la struttura nel suo complesso. Allo stesso modo, quando in uno specifico servizio, sia per il modo in cui il servizio viene condotto, sia per i risultati ottenuti, la situazione è di grande eccellenza bisognerà trovare il modo di premiare, economicamente e non solo con riconoscimenti, i responsabili e le strutture

Al di là di quant’è contorto questo punto, parte da un buon presupposto inespresso – porre rimedio all’inefficacia di certi servizi pubblici – e delira in una soluzione neo-liberista che farebbe gioire Reagan e rivoltare nella tomba Marx.
Immaginate per un istante la concorrenza tra ospedali: già così la sanità è mal presa, se poi tagliamo dove le cose non funzionano… o premiamo dove già funzionano… scaviamo un solco ineludibile che disgregherà irrimediabilmente la funzionalità pubblica. Il pubblico dev’essere eccellente – in campo sanitario non dovrebbe esserci privato, secondo me – senza alcun ribasso. Semplicemente dove le cose non funzionano, si segano teste e si rinnova la struttura, investendo ulteriori fondi per riprendere la situazione.
Non deve esserci concorrenza tra scuole: mica insegnano a smacchiare leopardi, a scuola! Si insegna a vivere. Cosa succede se non c’è più posto nell’eccelsa scuola pubblica n°2 per mio figlio? Lo iscrivo alla schifosa scuola pubblica n°5, sapendo che riceverà formazione scadente e che il suo istituto ha meno fondi? E questo è un sindaco del PD?
Il pubblico deve funzionare benissimo ed egualmente: non ci sono margini di spostamento da questo. Semmai penalizziamo le attività private doppioni del pubblico, deviando fondi e tasse sul pubblico per farlo crescere. E dove un’ente pubblico agisce in maniera scadente, lo si rinnovi e lo si finanzi per farlo ripartire. Costa? Certo che costa, però è l’unico modo per fornire un servizio giusto. Abbassarsi alla concorrenza apre porte drammatiche sulla differenziazione dei livelli di vita alla quale non voglio assistere. Non possiamo pensare al pubblico in funzione di un’azienda ma in funzione delle persone che ricevono un servizio da quel servizio pubblico: esso deve essere qualitativamente identico su tutto il territorio nazionale. Non c’è margine.
In altre parole: questo me lo aspetto da un pazzo liberale, non da un sindaco del PD! (e tre)

44. Esternalizzare, ma non per pagare di più. In via generale le esternalizzazioni aziendali servono sia per assicurare un servizio migliore rispetto a quello interno, sia per ridurre i relativi costi. Succede in sanità che l’esternalizzazione dei servizi troppo spesso si traduce non in un risparmio ma in un incremento dei costi, tanto che costa di più l’infermiera “esternalizzata” della infermiera interna. Allo stesso modo troppo spesso i beni e servizi acquistati dalle aziende sanitarie, hanno prezzi medi addirittura superiori a quelli di mercato, mentre sarebbe del tutto ovvio pensare che, dato l’ammontare delle quantità acquistate, si possano ottenere prezzi più bassi. inoltre l’esternalizzazione è troppo spesso gravata da attività professionalmente scadente. Occorre in questo caso strutturare e controllare l’iter formativo individuale

Esternalizzare per pagare di meno mi trova d’accordo: non in campo sanitario, ma mi trova d’accordo.In campo sanitario, per quel che mi riguarda, dovrebbe esserci solo il pubblico. Niente cliniche private, niente medici con studio privato, niente corsie preferenziali per chi ha più denaro: identico trattamento a costo zero per tutti i cittadini italiani (con ticket progressivi – anche ingenti per alti redditi).
Questo è sinistra. Pensare alle esternalizzazioni come soluzione no. E non è che sia da scartare perché non è di sinistra: è da scartare perché porta a una società che non ci piace.

75. Consentire a tutti gli studenti universitari di finanziarsi gli studi e le tasse. Obbligo per le Università di stabilire accordi con almeno tre banche (di cui almeno una locale e almeno una nazionale) per i finanziamenti agli studi universitari, garantiti da un fondo pubblico di garanzia.

Mettiamo il futuro dei nostri ragazzi in mano alle banche, dai. Già hanno le nostre case, perché non dare loro anche la nostra vita?
Qui tocchiamo veramente il fondo… lo studio in Italia è un diritto: se costa troppo, deve scendere il prezzo. La soluzione “i giovani che vogliono studiare si indebitano” è pessima e ingiusta. Moralmente fa venir la nausea. Non venitemi a dire “Ma in America funziona così” perché gli Stati Uniti sono l’esempio del paese in cui non voglio vivere. Sia chiaro.
Grazie Renzi, ci sono orde di pidiellini convinti che ti adorano per queste trovate. Penso che sia così pessima che neppure a quelli veramente di destra piaccia – con la destra sociale posso anche trovarmi d’accordo su molte cose.

79. Diritto di voto a 16 anni. Permetterebbe di immettere circa un milione di giovani elettori nel processo politico, abbassando l’età media del corpo elettorale più anziano del mondo.

Questo non ha a che fare con destra e sinistra, solo con il buonsenso. No, non ci sto: un conto è dare spazio ai giovani – molto spazio – un conto è consegnare una scheda elettorale a ragazzi ancora ampiamente in formazione. Tutti cambiamo idea ma a sedici anni – lo so bene, fidatevi – il mondo appare sensibilmente diverso da come appare a venti. Radicalmente diverso.
C’è un’età per tutto: sedici anni non è l’età per votare.

95. Immigrazione intelligente. Occorre stabilire una politica attiva e molto dettagliata nei confronti dell’immigrazione legale. Si stabilisca un piano nel quale siano definite le competenze professionali che è più urgente per il Paese acquisire e si aprano le porte a queste competenze, da valutare nelle ambasciate e nei consolati italiani nel mondo.

Non so se sia peggio questo delle liberalizzazioni folli. Ho un amico di destra – veramente di destra – che è entusiasta di questa proposta: dovrebbe darci un’idea di quanto sia un punto strampalato.
L’Italia deve essere un paese accogliente – per me tutti dovrebbero essere accoglienti ma, direttamente, posso operare solo sull’Italia: dovrebbe esserci posto per tutti coloro che vogliono venire qui a migliorare la loro vita e che hanno intenzione di farlo con onestà e serietà. Non servono altre competenze.
Vogliamo misurare su queste “competenze” l’accoglienza in Italia? Ci sto. Vogliamo misurarla sul titolo di studio o sulle necessità di certe figure? No, grazie. Perché dovrei respingere mio fratello dalla nostra casa comune solo perché, al momento, sembra servire meno di un altro? Se sono entrambi fratelli onesti, che vengano entrambi.
Questo non solo non appartiene alla sinistra: è anche fascista. Veramente fascista!

Penso abbiate intuito cosa ne penso di Renzi – o quantomeno del suo programma.
Ci sono passaggi validi nei suoi “100 punti”, non lo nego. L’idea che mi trasmette l’elenco, sinceramente, è che sia una valida raccolta di quello che è piaciuto a Matteo dei programmi altrui. Non trovo nulla di nuovo, ma trovo moltissime idee di PD, UDC, IDV, Lega Nord, PdL e via elencando. C’è anche moltissimo di tipicamente “sinistrorso”, chiariamoci. Non abbastanza, però, soprattutto in campo economico e sociale.
Qui dovrei attivare una discussione su dove va la sinistra oggi: c’è chi dice che la socialdemocrazia d’un tempo è ormai bruciata, è materia vecchia e deve essere dimenticata. Io penso di no.
L’Italia è un po’ troppo grossa – e troppo abituata ad altri criteri di vita – perché possa funziona un esperimento scandinavo ma questo non deve impedirci di avviarci sulla strada di una società più giusta. Non più liberista, più giusta. Neppure Popper – che era un vero liberista del suo tempo ma aveva un profondo buonsenso e un enorme rispetto dei diritti di ciascuno e dell’uguaglianza sostanziale – sarebbe d’accordo a certe uscite del sindaco fiorentino.
Mi esce una sola parola di fronte a questo programma: Demagogia. Può per questo, essere un programma vincente per la sinistra italiana: il costo sarebbe però altissimo. La distruzione della sinistra stessa sarebbe il contrappasso da pagare per porre in essere queste idee: e se qualcuno pensa di usarle per vincere le elezioni e poi dimenticarle – un tipico approccio berlusconiano – allora la fine è ancora più vicina di quanto mi aspettassi.
Non sono veramente e del tutto a sinistra ma lo sono abbastanza da capire quando qualcuno esagera nel tirare i confini: anche come democristiano di sinistra Renzi è veramente fuori dagli schemi. Lo è così tanto che rischia di toccare la destra e, certe volte, sorpassarla.
Se questo è il suo programma, non voglio saperne della sua candidatura come leader di coalizione: se questo è il suo programma, piuttosto prendo la tessera del PD per fare campagna elettorale per la Bindi (lei si che mi piace) o quella di SEL per aiutare Vendola. Non dobbiamo andare dietro alla linea del rinnovamento-a-ogni-costo, solo per mettere una nuova faccia al posto di quella sonnolenta di Bersani. Servono i giovani ma, nel PD, servono giovani veramente di sinistra, gente che sappia prendere a cuore il bene dei deboli, non di chi sta già bene, scavando ulteriori solchi. Noi, a sinistra o cristiani di tutta la politica, siamo per una società di persone eguali. Capiamolo e mettiamoci in campo.
Questo Renzi, come Bersani, è da rottamare.

 
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Pubblicato da su 5 novembre 2011 in Politica, Sproloqui

 

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Marxismo e cristianesimo: un debito d’onore


Credo che dobbiamo molto al marxismo se il cristianesimo di oggi è quel che è.
Una dichiarazione così provocatoria richiede una spiegazione altrettanto forte e, anche se non sono ancora disposto a investire a fondo su questo punto, credo che meriti un approfondimento. L’argomentazione è tutt’ora in divenire ma ritengo meriti quantomeno l’affrontare un giudizio critico – e comparato – per poter uscire dall’empasse dell’auto-confermazione. Non è una meditazione comparsa dal nulla: piuttosto ho a che fare con una conferma giunta da voce autorevole; le letture di Karl Popper, argomento della mia tesi di laurea, hanno indubbiamente stimolato il processo e, sinceramente, devo all’epistemologo austriaco il fulcro del tema che illustrerò tra poco. La Società aperta e i suoi nemici: Hegel e Marx falsi profeti è indubbiamente la principale origine di queste pagine; vi rimando a pag. 237 dell’edizione Armando Editore per la lettura del testo integrale.

In primo luogo, dobbiamo prendere in mano il marxismo originario, quello che chiamo puro marxismo. Parlo del marxismo di Marx: eliminiamo ogni influenza posteriore, ogni elaborazione dei suoi discepoli, seguaci o epitomi.  Certamente l’influenza sociale di tutti questi fattori è stata importante – anche centrale, per il tema che trattiamo – ma è necessario partire da Marx per capirne l’influenza che ha avuto sul cristianesimo e individuare ancora oggi questa sua presenza.
La seconda spunta dobbiamo metterla su una dichiarazione forte quasi quanto quella d’apertura: Marx era un ottimista e un buono. Sperava in un futuro migliore – addirittura vi credeva con così tanta forza da profetizzarlo – e si impegnava affinché questo futuro diventasse presente in breve, con la minima quantità di doglie e senza perdersi lungo la strada. Sicuramente ci sono affermazioni di Marx che contrastano con questa descrizione: non dobbiamo lasciarci spaventare dal suo materialismo, dal suo cinismo, dai progetti rivoluzionari: tutto sommato Marx si è reso un ingranaggio di un meccanismo molto più complesso di quanto credesse lui stesso in origine e non dubito che neppure lui fosse consapevole del fondo di bontà che si racchiudeva alla base della sua teoria. Le condizioni di vita degli operai dell’epoca erano veramente inumane e queste persone erano vittime di uno sfruttamento selvaggio da parte del ceto padronale: non potevano non alzarsi voci di protesta, voci di giustizia.
Infine, ultimo elemento di partenza: il marxismo è fallato, non funziona e – nonostante l’allergia di Marx per le utopie – è vittima dell’utopismo della peggior specie, quello che Popper chiama storicismo. Non mi soffermerò ora sullo storicismo: c’è la mia tesi, per quello. Vi dirò solo che il marxismo si pone come teoria socio-economica di stampo scientifico, mentre si guarda bene dall’esserlo davvero. Affetto da dogmatismo, da ipotesi ad hoc, da passaggi forzati, il marxismo per come l’ha disegnato Marx non funziona. Essenzialmente credo che sia perché è stato pensato per una società di metà ottocento e identicamente applicato a una società di oltre mezzo secolo più tarda; il dogmatismo pseudo religioso dei marxisti ha impedito una sua rivisitazione, il che ha condotto completamente fuori strada i tentativi di rigida applicazione. Dopotutto, la socialdemocrazia in Svezia ha funzionato benissimo e a lungo.

Fissate le basi, passiamo all’argomentazione vera e propria. L’etica cattolica “ufficiale” ( o gerarchica, preferisco chiamarla) dell’epoca era quanto di più vergognosamente anticristiano possiamo immaginare. Che a distanza di tempo molte dichiarazioni ci sembrino fuori luogo non impedisce di ritenerle in profondo contrasto con il messaggio evangelico. Il ministro Townsend – ministro in entrambe le accezioni che possono sovvenivi – scrisse che “la fame non soltanto è una pressione pacifica, silenziosa, incessante, ma, come motivo più naturale dell’industria e del lavoro, destra gli sforzi più potenti”, aggiungendo nel suo dipingere un’idea cristiana di società: “Sembra una legge di natura che i poveri siano in una certa misura sventati cosicché ve ne siano sempre per l’adempimento delle funzioni più servili, più sudice e più volgari della comunità. Il fondo di felicità umana viene in tal modo molto accresciuto, le persone più delicate sono liberate dal lavoro molesto e possono accudire indisturbate alle loro superiore missione”. Sembra quasi che  queste siano “l’armonia, la bellezza, la simmetria di questo sistema che Dio e la natura hanno instaurato nel mondo”. Questo con il cristianesimo non ha nulla a che vedere, appare ovvio senza neppure dover argomentare: è semplicemente in collisione frontale con qualsiasi passaggio del Vangelo circa l’amore fraterno, il rispetto per i deboli, l’uguaglianza dei fratelli… e potrei proseguire per alcune righe. Sappiamo oggi che il cristianesimo – romano/cattolico ma non solo – si è rimesso in carreggiata; soprattutto grazie al Concilio Vaticano II l’attenzione al sociale e, in particolare, a quelle fasce più deboli e meno tutelate è emersa per quello che giustamente deve essere: il fulcro dell’opera di annuncio della Buona Novella, che poi è lo scopo della Chiesa. Il cambiamento è altrettanto evidente quanto l’incoerenza delle citazioni precedenti ed è in questo passaggio che possiamo provare a inserire il marxismo e le sue attuazioni sul globo. È infatti anche merito del marxismo – secondo me il marxismo ha svolto un ruolo centrale, in questo – se il cristianesimo ha assunto il suo ruolo attuale, riprendendo veramente le parole del Vangelo anche in quelle parti che giacevano dimenticate.
Marx per il cristianesimo è stato l’idea correttiva, per usare una definizione di Kierkegaard; non la sola, io credo, ma una fondamentale. Molte altre idee correttive del cristianesimo moderno, quelle idee che l’hanno spinto verso un marcato impegno sociale, sono anch’esse derivate o frutto del marxismo; spesso frutto anche della paura della rigida applicazione marxista, come abbiamo visto in Russia, altre volte frutto di una volontà di reinterpretare il marxismo, rifiutandone il dogmatismo sistematico e gli eccessi di violenza, la ricerca della lotta di classe. Il marxismo, scrivevo prima, non funziona, non ha mai funzionato e, in quanto tale, non funzionerà certo nel futuro; è un bel disegno astratto che poco ha a che fare con la realtà. Però dobbiamo riconoscergli che l’idea fondante – una maggior giustizia sociale – non può essere rinnegata e, anzi, deve trovare sempre maggior spazio nella nostra società. Come un ariete che ha sfondato per primo i portali di una città assediata consentendo alle truppe di penetrarvi, il marxismo ha aperto una via in cui molti si sono inseriti e nella quale il cristianesimo ha ritrovato una radice che sembrava smarrita da tempo. Per questo non posso negare il debito d’onore che noi cristiani abbiamo contratto con i marxisti.

 
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Pubblicato da su 13 luglio 2011 in Politica, Sproloqui

 

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Le scuse a Popper


Devo porgere le mie scuse a Karl Popper per il tentativo di criticare una posizione non sua.

Approfondendo i suoi scritti – sto letteralmente divorando i suoi testi – per la tesi, ho compreso meglio la sua critica al marxismo (che condivido) e, soprattutto, la sua forte sponsorizzazione al liberismo.
Pensavo si trattasse di un liberista tipico, fautore della libera iniziativa come unica norma che regolasse il mondo economico e no, unica via per garantire a tutti un giusto trattamento. Pensavo avrebbe difeso le politiche liberiste che detesto: limitazione della spesa pubblica, pieno appoggio agli imprenditori, lavoro e successo.
Mi sbagliavo.
Sbagliavo non di poco ed è giusto che io apra questo post chiedendo scusa a Popper per la considerazione pessima che avevo della sua posizione liberista – considerazione che non ha mai influenzato, ovviamente, il mio altissimo apprezzamento della sua epistemologia e della sua critica spietata e giustissima al marxismo.

Popper critica – smonta sarebbe un termine più corretto ma ammetto che sia filosoficamente meno idoneo – Marx e ancor più il marxismo; non ha parole tenere per chi ha abbracciato questa teoria socio-economica con il medesimo ardore di una fede religiosa perché, a ben vedere, presentano la stessa cecità e irrazionalità. Aggiungo io che, se da una parte l’irrazionalità è parte della fede, dall’altra non deve trovare spazio in teorie di questo tipo, quando poi si presentano come scientifiche.
Il marxismo ne esce, così, malamente destituito del suo trono di scientificità e Popper propone una non-utopica politica liberista. Non il liberismo, però, che mi ero fin qui atteso da lui e che precedentemente avevo criticato. Il liberismo di Popper è, a ben vedere, un interventismo; abbiamo a che fare, a grandi linee, con un’idea di società in cui sono tutelate la libertà d’iniziativa, la proprietà privata e in cui lo Stato interviene per impedire lo sfruttamento. Interventismo limitato, certo, ma fondamentale: in linea con la descrizione di democrazia di Popper, l’intervento dello Stato è garante delle libertà democraticamente accertate. Un pericolo, questo intervento, come ogni intervento statale, ma un pericolo da correre per difendere libertà ben maggiori. Il gioco consiste, in fin dei conti, nel trovare il giusto equilibrio.

Nella mia tesi questo troverà ampio spazio; ne troverà molto meno un’appassionante discussione circa il debito che il cristianesimo ha contratto con il marxismo. Suona strano, suona provocatorio (un po’ lo è) ma io, da anti-comunista, ravviso questo debito nell’opera pastorale della Chiesa contemporanea. Staremo a vedere…

 
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Pubblicato da su 9 luglio 2011 in Politica, Sproloqui, Teoria

 

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