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Renzi, ovvero l’antitesi dello scoutismo


Mi sono soffermato sul programma di Renzi già un paio di volte e intendo mantenere la promessa: scriverò anche quel che del suo programma mi è piaciuto e non si tratta di poca roba.
Oggi però scrivo di un’altra cifra distintiva del sindaco fiorentino: lo scoutismo.

Matteo Renzi è cresciuto nell’Agesci. Non lo nasconde, anzi, ne fa motivo di vanto. In questo lo capisco, sono fiero anch’io del cammino scout che ho compiuto, conscio di quanto si tratti di un elemento determinante per la mia formazione personale.
Vorrei oggi soffermarmi su come il programma di Renzi in realtà non sia per niente scout, anzi: spiegherò come le idee portanti del sistema fiorentino, in realtà, stiano agli antipodi dei principi su cui si basa il movimento scout.

L’illuminazione mi è venuta parlando con un “compagno” della mia Comunità Capi: Renzi si basa sul premiare il migliore. Diamolo per consolidato, direi che non c’è nessuna difficoltà a trovare nel programma questa tendenza.
Lo scoutismo non si basa sul migliore! Lo scoutismo fonda la spinta alla crescita sul dare il massimo rispetto alle proprie possibilità.
Il motto dei lupetti – gli scout tra gli 8 e i 12 anni – è “del nostro meglio”: fin da quell’età sono esortati a impegnarsi ai loro limiti, a spremersi, a non fermarsi di fronte a difficoltà e piccoli limiti. Ma è anche loro mostrato come non conti tanto il valore assoluto del risultato finale quanto l’impegno profuso e il rapporto tra il risultato e le potenzialità del singolo.
Ciascuno è misurato rispetto alle proprie potenzialità, senza alcun criterio di valore assoluto.

Lo stesso criterio è adottato lungo tutto il cammino di progressione personale dei ragazzi, una sorta di succedersi di impegni che ciascuno prende, via via più consapevolmente e autonomamente, per migliorarsi.
Lo scoutismo non da premi ai migliori: da premi a chi si impegna di più. E se quello che si impegna di più ottiene un risultato peggiore di quello che, impegnandosi meno ma più dotato, riesce meglio, sarà comunque chi ha profuso maggior sforzo a essere additato per la sua bravura. Per l’impegno, appunto. 

Il motto e la struttura stessa del cammino di crescita non sono due elementi trascurabili: da uno scout mi aspetto che, nella sua azione nella società, quantomeno si ispiri all’approccio scout. Renzi fa l’esatto opposto: propone di premiare i migliori, tralasciando che i migliori non lo sono per bravura loro ma per dono di natura, per pura sorte.
Se può sembrare politicamente una critica leggera, è scoutisticamente un elemento fondamentale: il programma di Renzi è costruito su un principio antitetico a quello su cui noi capi educhiamo i ragazzi – e sul quale è stato educato lui, il che apre a un interessante dibattito sulla reale e profonda efficacia del metodo scout, che ha prodotto gente come Penati e Renzi.

Ovviamente si può sempre sostenere che non sia di rilievo quanto il programma di Renzi sia influenzato dallo scoutismo o aderente ai suoi principi.
Verissimo, se Renzi non facesse continuo riferimento a questo mondo nel definirsi.
Un politico che avvia la sua campagna per le primarie annunciando “prometto sul mio onore…“… beh, allo scoutismo non fa riferimenti vaghi bensì precisi e chiari. A chi conosce questo mondo, è chiara la strizzata d’occhio, la chiamata “alle armi” per l’amico in battaglia.
Il voltafaccia di Renzi, allora, diventa tema politico, perché usa per definirsi un sistema di valori che poi, sistematicamente, rinnega nel programma che vorrebbe delineare la sua opera politica. Questo per un politico è particolarmente grave, decisamente ingannatore e, per chiunque, completamente scorretto. Un po’ come se a capo del partito che chiama a raccolta i voti cattolici ci fosse un divorziato/risposato o come se il leader del partito che si appella al cristianesimo per combattere i “comunisti” fosse amante di orge, corruzione, minorenni, etc.

In Italia siamo abituati così e sono sicuro che il caso di Renzi – sollevato da me, poi, che son nessuno – non farà alcuno scalpore. Chi ha una coscienza, però, ci rifletta bene: ha senso appoggiare un candidato che predica in direzioni diametralmente opposte e non compatibili? Ha davvero credibilità una persona del genere? Può qualcuno che si pone con tale slealtà rispetto al suo elettorato e rispetto ai suoi “fratelli” scout essere un degno rappresentante delle nostre istituzioni?
So che abbiamo avuto cariche pubbliche assegnate a personaggi ben peggiori ma se Renzi intende incarnare il cambiamento… lo sta facendo nel modo peggiore, mantenendo le usanze di un tempo, le menzogne stile DC e PCI, la prassi del politico “moltefacce” che ha fin qui scritto la triste storia della politica italiana.
Se vogliamo un cambiamento, cerchiamolo onesto e leale. Se non lo troviamo, diventiamolo noi.

So che molti scout voteranno Renzi ma il suo programma, lo sappiano, è contrario al nostro approccio educativo e alla visione della società futura che ha la nostra associazione.
Usare lo scoutismo per raccontarsi e tradirne i principi mi sembra l’esito di qualcuno che ha meritato la nostra fiducia ma, poi, l’ha atrocemente delusa.

 
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Pubblicato da su 3 ottobre 2012 in Politica

 

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Diritti, costi, benefici… e sogni!


Sono cresciuto pensando che i diritti dovessero essere gratis; dopotutto, un diritto a pagamento cessa di essere diritto, secondo me, e diventa bene superfluo.
Lo scontro con la realtà può essere traumatico – in qualche misura lo è sempre – ma di solito si sopravvive; moltissimi, però, si disilludono. Dal mio canto, invece, è rimasta la pervicacia e la testardaggine del sognatore, di colui che ai diritti ci tiene davvero. E che non si lascia abbindolare senza lottare.
Poi ci si sente soli, capita a tutti; guardandosi attorno si osservano amici, persone con le quali si pensa di condividere opinioni e spunti, cedere al duro mondo esterno e scendere a patti con un sistema che nessuno di noi apprezzava davvero. Una storia che ricorda un po’ una canzone di Gino Paoli, lo so, ma credo che, bene o male, in molti l’abbiano vissuta.

Stasera sono stato felice di sentire Gino Strada parlare di sanità pubblica; mi ha donato un sospiro di sollievo non da poco, devo ammetterlo. Strada ha ribadito con il buonsenso che lo contraddistingue la necessità di confermare e potenziare il sistema sanitario nazionale e l’urgenza di renderlo realmente gratuito. Per tutti. Ed eccellente.
Ha parlato di sprechi e di qualità, ha parlato di Emergency come modello esportabile – a basso costo – e l’ha fatto con la competenza del tecnico e con la passione del sognatore. Di quasi tre ore di programma made in Santoro, le parole di Strada, abbastanza laterali sull’argomento principale della trasmissione, sono quelle che mi hanno colpito davvero. Hanno centrato nel segno.

Il motivo è da trovarsi nell’autorevolezza della voce. Non è stato un proclama politico di un demagogo sinistroide (Vendola?) o di un marxista fuori dal mondo reale, ancora convinto che teorie economiche ottocentesche che provano a prevedere la storia siano attuabili e realizzabili. Gino Strada ha parlato armandosi di buonsenso e di competenza, sicuro sull’argomento perché lo conosce e perché ha messo in pratica in prima persona quel che predica. E nessun marxista può dire altrettanto – per fortuna.
Allora, se anche una persona di buonsenso, una persona pienamente ancorata nella nostra realtà e nel contesto, che opera in giro per il mondo da decenni, coltiva sogni come quelli di questo misero trentenne di provincia, c’è speranza. E non si tratta di una speranza politica, ideologica o teorica: si tratta di un approccio realistico, praticabile e perseguibile. Una strada su cui incamminarci e che ha tutte le caratteristiche della via reale.

Non voglio soffermarmi su Strada e sulla sanità – gratuita – perché non è l’argomento del post; voglio piuttosto vertere sulla necessità di sognare e di pensare a come cambiare davvero il mondo.
A piccoli passi. Con buonsenso/senso comune (criticato). Senza un’utopia finale.
Diamo tutto lo spazio a Popper, se lo merita; ma diamo anche spazio ai sogni e alla voglia di realizzare questi sogni. Non dobbiamo essere indignati dalla realtà, ha detto don Ciotti, ma infuriati. E dobbiamo voler cambiare questa realtà, in meglio. Per tutti.
Molto scout tutto questo, perché si tratta veramente di lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato. E allora facciamolo, invece di lamentarci del governo, dei politici, del sistema. Piantiamola di cedere e facciamo avanti le proposte che veramente ci stanno a cuore. Piuttosto litighiamo, ma eliminiamo il silenzio.

 
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Pubblicato da su 23 dicembre 2011 in Politica, Sproloqui, Teoria

 

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Questa maledetta notte dovrà pur finire!


questa maledetta notte
dovrà pur finire

Ci sono momenti di questa nostra notte in cui ti chiedi se potrà mai finire davvero.
Ci sono momenti di questa nostra notte in cui lo scoraggiamento ti assale e sei certo che non ci sia modo di sfuggire alla marea.
Ci sono momenti di questa nostra notte in cui sei sicuro che la marea ti coglierà, e non potrai fare nulla per fermarla o sfuggirle.

Eppure l’alba arriva e il sole rischiara sempre, ancora una volta, quei pochi fiori che aspettano con fiducia il nuovo caldo.

Credo ci siano piccoli fiori per cui è necessario lottare.
Credo che dobbiamo alzare la voce quando il nostro diritto al lavoro, al lavoro onesto e onorevole, è calpestato.
Credo che dobbiamo alzare la voce quando la scuola pubblica è considerata una “serie B” dell’istruzione e i suoi fondi sono indirizzati al sistema privato.
Credo che dobbiamo alzare la voce quando la libertà di esprimere la propria fede è impedita da scelte razziste, dettate da un’ignorante paura.
Credo che dobbiamo alzare la voce quando il nostro governo, afflitto da bullismo internazionale, consente azioni di guerra contro stati che non ci hanno attaccato, in violazione della Costituzione.
Credo che dobbiamo alzare la voce quando le leggi ci privano sempre più di diritti fondamentali, come la salute e l’accesso alla miglior sanità possibile.

Credo che dobbiamo alzare la voce ogni volta che un diritto, soprattutto un diritto di un altro che non siamo noi, è calpestato: perché quel fratello capirà il nostro gesto e si unirà a noi nell’alzare la voce quando altri diritti saranno dimenticati.

Credo che dobbiamo alzare la voce: non credo, invece, che dobbiamo tacere, rassegnarci, contenerci dietro un “è sempre stato così” o un “tanto non cambierà mai”.
Lo dobbiamo a un inglese nato due secoli fa, militare per professione e pedagogo per vocazione: sognava – lui sognava davvero, sognava forte, e guardate cos’ha fatto – che i cittadini potessero essere cresciuti fin da piccoli, educati a partecipare e a prendersi sulle spalle quel pezzettino di responsabilità che può stare nel loro zaino. Sognava che ciascuno di questi cittadini, cresciuti con un po’ di utopia nel cuore, lavorasse giorno per giorno a rendere le cose “un po’” migliori, per consegnare a suo figlio un mondo un po’ cambiato rispetto a quello che aveva ricevuto da suo padre.

Lo stesso lavoro è costruire una cattedrale: qualcuno la sogna e la immagina, lavora per trovare i fondi e passa la mano a chi la progetta. Quando i lavori sono avviati, ormai è il figlio dell’anziano architetto a condurli e, infine, quando ormai tutto è concluso e si celebra la prima messa sull’altare maggiore in marmo luccicante, a celebrarla sarà chiamato il nipote di uno di quei bambini che assistevano a occhi sgranati alla posa della prima pietra.
Noi non vedremo molti passi avanti nella nostra vita ma, se ci impegniamo, poseremo abbastanza mattoni da veder salire un po’ quel muro e poter riposare alla sua ombra, quando saremo vecchi. Così facendo, lasceremo ai nostri figli un muro a cui dare un tetto.

Per i miei rover e le mie scolte,
perché imparino che è giusto lottare
per costruire la cattedrale che vorremmo

 
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Pubblicato da su 4 dicembre 2011 in Diari, Sproloqui

 

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Del nostro meglio: il lupettismo come guida della società


Dal titolo potrebbe sembrare che mi sia dedicato all’uso di droghe pesanti, non lo metto in dubbio. Vi chiedo, però, di non scappare alla sola lettura del titolo ma di fermarvi a leggere le righe che seguiranno, perché forse hanno qualcosa di importante da dire.

Il motto dei lupetti è “Del Nostro Meglio”: nel branco ciascuno contribuisce a suo modo, impegnandosi al massimo secondo le sue possibilità, e nessuno valuta il valore assoluto di ciò che si ottiene ma solo l’impegno genuino e reale dei fratellini, la loro capacità di mettersi in gioco dando il meglio di loro stessi. Lo scoutismo ne fa un punto d’onore  e uno strumento educativo di primo piano anche nei momenti successivi, quando si diventa scout e guide, rover e scolte, capi.
Lo spunto educativo, l'”impegno”, la “preda”, la “Partenza” sono sempre commisurate al ragazzo che agisce: non ci sono livelli di capacità assoluti a cui fare riferimento, solo l’impegno del ragazzo nel suo percorrere la pista. E’ questo il vero criterio di giudizio del suo operato, non il risultato materiale dell’azione.
Camminare su una pista tracciata a propria immagine significa non dare peso alcuno alle reali differenze di potenzialità: è rispettare la parabola dei talenti, a modo nostro, io credo. A chi ha molto chiederemo molto, a chi ha poco chiederemo poco. Quel che importa è come ce lo daranno, non in quale quantità o di quale qualità.
Questo dovrebbe aiutarci anche nel pensare il nostro agire nella società; si discute molto di capitalismo in questo periodo di crisi e maturo lentamente la convinzione che anche in campo sociale ed economico dovremmo affidarci in qualche modo al criterio del “nostro meglio“.
La società di eguali che hanno cercato di creare altre generazioni è al di là delle nostre possibilità: “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali di altri” penso racconti benissimo la parabola di queste posizioni. Ottime intuizioni, belle teorie… ma effettivamente slegate dalla realtà.
Volendo restare in qualche modo sul piano utopico ma provando ad ancorarlo a dati fattuali – alla realtà – la chiave del motto dei lupetti può aiutarci, in qualche modo. Se l’unità di misura della nostra società smettesse di essere il prodotto e il suo valore ma l’impegno relativo profuso, in ragione delle capacità del singolo? Dovremmo, io credo, cessare di ritenere il successo un valore assoluto, un concetto che fornisce, in base al risultato, il valore di una persona. Dobbiamo, in definitiva, accettare che siamo diversi e che da questa diversità si può costruire una società veramente migliore, oltre che una società più giusta. Penso che si possa porre termine all’attuale idea di uguaglianza, quella che ci dice che “siamo tutti uguali” ma basarci su un’idea di uguaglianza fraterna in cui a vincere sia “siamo egualmente importanti, nonostante le differenze”.
L’evoluzione delle “pari opportunità” è un esempio pratico molto diretto. Non ha senso pensare che uomo e donna siano uguali sotto ogni punto di vista e possano svolgere identici compiti – aiutandoci con i grandi numeri: mediamente, un maschio ha una forza muscolare maggiore; solo una femmina può partorire e allattare un bambino; le differenze di struttura fisica consentono una maggior facilità di esecuzione a un genere o a un altro; le capacità relazionali e psicologiche di uomini e donne sono profondamente diverse, nessuna deve prevalere sulle altre. Dobbiamo imparare a convivere e a valorizzare le differenze, impegnando a comprenderci, a venirci incontro, ad accettarci e a non giudicarci.
Il “nostro meglio” svolge un ruolo analogo nel concepire i rapporti sociali, tutti gli altri rapporti sociali. Dopotutto, credo che a stabilire il vero successo non debba essere cosa ottengo ma quanto mi impegno per ottenerla. Nel “quanto”, ovviamente, possiamo includere anche la seria analisi delle mie potenzialità e la scelta del campo d’azione a me più congeniale: non pretendo di essere pagato milioni di euro per i miei quadri o per le mie canzoni, viste le mie scarse qualità artistiche. Ma se scopro che scrivere è la cosa che mi viene meglio e mi dedico con la massima dedizione, il totale impegno, la completa perseveranza a questo… perché non devo essere massimamente premiato?

Non voglio fornire una ricetta finale di utopia neocomunista a cui aderire, sia chiaro. Mi interessa però sollevare una riflessione su un criterio di rapporto, impegno e “valutazione” a me molto caro e che ritengo estremamente importante, oltre che vincente. Puntare su ciò che sappiamo fare meglio e farlo al meglio delle proprie capacità.
Mi ritrovo innegabile sognatore in questi giorni, ma ho le mie buone ragioni.

 
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Pubblicato da su 7 novembre 2011 in Politica, Sproloqui

 

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La strada non presa


Two roads diverged in a yellow wood,
And sorry I could not travel both
And be one traveler, long I stood
And looked down one as far as I could
To where it bent in the undergrowth;

Then took the other, as just as fair,
And having perhaps the better claim
Because it was grassy and wanted wear;
Though as for that the passing there
Had worn them really about the same,

And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black.
Oh, I kept the first for another day!
Yet knowing how way leads on to way,
I doubted if I should ever come back.

I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and I—
I took the one less traveled by,
And that has made all the difference.

Robert Frost

Suona più o meno così, in italiano:

Due strade si separavano in un bosco ingiallito
e dispiaciuto di non poterle percorrere entrambe
e dispiaciuto di essere un solo viaggiatore, a lungo le fissai
e voltandomi indietro a ne guardai una fino a che fu possibile
là tra gli arbusti dove svoltava.

Poi presi l’altra, com’è giusto,
e aveva forse le migliori caratteristiche
perché era erbosa e poco segnata;
anche se il passar della gente
le aveva segnate circa allo stesso modo

e in quella mattina nessuna delle due mostrava
l’impronta nera di un passo sull’erba.
Oh, la prima la lasciavo per un altro giorno!
Eppure sapevo che una strada porta a una strada,
dubitavo che mai sarei tornato indietro.

Questo racconterò con un sospiro,
da qualche parte tra molto, molto tempo;
due strade si separavano nel bosco e io…
io presi la meno battuta,
e questo ha fatto tutta la differenza!

E’ dedicata a chi la sua strada l’ha scelta e ha deciso di scoprire dove porta. A chi, fra molti anni, questa sua scelta la racconterà attorno a un crepitante fuoco da campo, a un camino, a un piatto di minestra.
Perché avere il coraggio di scegliere una via e condurla a destinazione è più importante di quale strada abbiamo scelto.

Buona strada!

 
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Pubblicato da su 23 settembre 2011 in Diari, Poesia, Sproloqui

 

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Ed è di nuovo route!


Viene il giorno in cui chiedi a te stesso dove voli
viene il tempo in cui ti guardi e i tuoi sogni son caduti
E’ il momento di rischiare di decidere da soli
non fermarsi e lottare per non essere abbattuti

Penso sia questo lo spirito di una route: partire, mettersi sulla strada per rischiare, smuovere il mondo che ci sta attorno iniziando proprio da noi. Un piccolo segno, certo, ma un inizio.
Siamo chiamati a portare quel qualcosa che ciascuno di noi ha di speciale – di unico – anche agli altri; si porta i propri doni solo attraversando le strade che agli altri ci conducono.

Con questo spirito domani spingerò di nuovo i miei passi sulla strada. E’ qualche anno che non cammino in route, d’estate: le mie esperienze da capo in R/S non hanno mai condotto a questo, non così a fondo (e questa neppure è una completa route di strada). Da domani tornerò pellegrino, percorrerò i sentieri della Via Francigena come i penitenti del medioevo, come loro sarò in cerca di me rimanendo sulla strada.
Mettersi in cammino è, prima di tutto, camminare per sé stessi e dentro sé stessi; può suonare banale, può suonare scontato ma dalla strada ho imparato più che dai libri. La fatica ti costringe a ponderare davvero i tuoi limiti, ti mette faccia a faccia con tutto il tuo essere uomo. Non c’è tecnologia, non c’è inganno che aggiri questa tua fragilità. Sei solo con il tuo cuore che pulsa, con i muscoli che urlano, con la schiena che duole la sera. La strada è, prima di tutto, mettersi in gioco senza remore, senza tirarsi indietro, senza “ma”.

In realtà, a ben vedere, non sei solo. Sulla strada sei assieme ai tuoi compagni di viaggio. Da domani ne avrò non pochi.
Ho vissuto una splendida route a dicembre, un campo di formazione che ha formato più me che il capo che è in me. Proprio la strada, proprio la fatica, proprio la difficoltà ha dato a quella route un tono completamente diverso ed è stato occasione di indagare ancora più a fondo dentro di me. Non è facile, spesso neppure fa piacere.
La Route, con la fatica, fa emergere spesso parti di noi che non ci è facile accettare; camminare in comunità significa aiutarsi in questo confronto con il proprio io, sostenersi fisicamente e spiritualmente, sorreggersi quando si è troppo stanchi, festeggiare in cima alla vetta, la sera attorno alla tenda.

Il cammino della route è anche abbandonare la quotidianità, cercare di chiudere oltre la soglia il lavoro, lo studio, i problemi di ogni giorno e prendersi uno spazio per sé stessi. Siamo importanti ben più dei problemi, delle domande, dei quesiti che ci circondano ogni giorno e che assillano le nostre vite. Sulla strada abbiamo occasione di restituire lo spazio giusto a ciascun aspetto della nostra esistenza, riequilibrare le sorti in una società sempre più complessa, sempre più alienante. Non è fuggire, però; è prendere coscienza per cambiare. Sulla strada non scappi dalla tua vita ma ne prendi una visione distaccata, la studi con maggiore attenzione; ti fai un’idea di dove intervenire, come cambiarla, in che direzione svoltare al prossimo bivio. La strada è la miglior palestra per camminare da soli ogni giorno.

Lo spirito dell’uomo e della donna della strada sono in queste semplici cose. Domani saremo più che uomini e donne sulla strada, saremo pellegrini in cammino per pregare. Il pellegrinaggio è una tradizione cristiana antichissima e racchiude – sviluppa, aumenta, suggella – i temi che la strada pone a un rover e a una scolta. Questo credo che sia alla radice della scelta di fare un pellegrinaggio, per quanto breve, per quanto senza una meta “forte” sulla cartina. Trovo che fare strada significhi molto, ma farla pellegrinando significhi ancor di più. Camminerò cercando il Padre, ponendogli ogni giorno le domande che hanno angustiato queste settimane, sapendo che nella fatica, nella compagnia, nella gioia della meta e nel silenzio delle montagne saprà darmi una risposta. Io dovrò saperla trovare.

Camminerò con i miei “bambini”. Nutro un profondo affetto per questi “poveri disgraziati” che hanno la sventura di trovarsi me come educatore; ambisco, però, a lasciare qualcosa di me in ognuno di loro. Forse sapranno prendere spunto da un mio difetto per fare di meglio, forse troveranno divertente una mia ricetta da route, forse penseranno che una mia riflessione possa dar loro qualcosa o li stimolerà a smontarla, a metterla in crisi, a uscirne migliore. Sono però certo di avere la voglia e la volontà di camminare con loro: si cresce tutti assieme, sulla strada, e non ci sono vecchi capi che non hanno nulla da imparare da giovani novizi. Anche questo ci ricorda sempre la strada: l’umiltà.
Spero di averne la giusta dose per affrontare questa splendida route nel migliore dei modi.

E per ora… buona strada a tutti!!!

P.S.: per chi ci ha già lasciato, un ancor più forte Buona Strada e la speranza di riabbracciarlo giovedì sera alla grande festa!

 
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Pubblicato da su 6 agosto 2011 in Diari, Sproloqui

 

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Partire


Eccoci a un passaggio importante di quest’anno, di questo gruppo scout.

Quasi tre anni dopo l’ultima del vecchio clan Orione, stasera abbiamo celebrato la prima partenza del clan Alnilam. Da una cintura di stelle a un punto luminoso, forte e saldo, nel cielo e lungo la nostra strada.

Tutto sommato sono un sentimentalista; non mi tiro indietro se c’è da commuoversi (compostamente) e adoro le emozioni forti, vere, serene. Come stasera.

Per questo, all’una di notte, dopo un periodo di stanchezza e stress – che non finirà – mi ritrovo a scrivere e continuerò a farlo ancora per almeno una mezz’ora. Al mio fianco, immancabile, le Storie di Mowgli, perché lupettari lo si è fino in fondo, non solo con la barretta gialla sulla camicia.

È duro spogliarsi della pelle”, Kaa lo dice con la saggezza delle Morte Stagioni, lo dice con l’amore di un vecchio compagno di viaggio. Lo dice con il cuore di qualcuno che sa perché l’ha vissuto sulla sua pelle.
Se stasera ci siamo riuniti su una spiaggia è perché anche noi conosciamo questa sensazione, l’oltre che ci chiama e che, inesorabilmente, ci attira; se ancora a trent’anni suonati c’è gente che tiene per mano i ventenni che faranno il mondo domani, è perché ci è passata attraverso e riconosce negli occhi luccicanti, nelle labbra che fremono, nei piedi irrequieti gli stessi segnali che ha lanciato un tempo ai suoi capi. Credo fortemente che questa trasmissione di generazione in generazione serva a far si che i messaggi non si perdano nel tempo, anzi, ricevano nuove forze da chi impugna il testimone e corre la prossima frazione. Forse è per questo che faccio il capo, dopo tutti questi anni – oltre che per un divertimento spietato, senza limiti nella sua gioiosità. Forse è per questo che undici anni fa ho fatto anch’io la mia Partenza e, oggi, continuo a credere che quelle scelte e quei gesti siano la prospettiva lungo la quale proseguire nel viaggio che ancora mi attende. Non tanto questione di scoutismo, ormai, ma scelte che porti con te nella vita, là fuori.
Partire significa lasciare la propria comunità, il nido in cui si è cresciuti, e camminare oltre. Eppure non è un addio, anzi… è un arrivederci e un grazie fortissimo. Con la Partenza non salutiamo ciò che siamo stati e abbiamo vissuto ma troviamo a tutto questo un nuovo orizzonte entro il quale essere rielaborato.
Siamo cresciuti e vogliamo constatarlo, urlarlo al mondo; siamo uomini e donne della Partenza.
È il mondo che accoglie questo nostro urlo: ieri Giulia ha intrapreso questo cammino difficile, lasciandosi dietro qualcosa ma aprendosi a tutto ciò che verrà da oggi.
Partire non è solo questione di scoutismo, anzi: a essere molte brevi, significa dire che il gioco ci è piaciuto ma che pensiamo possa essere molto di più e vogliamo portare le sue regole anche nel mondo che ci circonderà. Significa accettare di essere persone significative in un mondo che ci vorrebbe omologati, senza tratti distintivi, senza qualcosa in cui credere fino in fondo.
Non si tratta di dire addio, di chiedere il permesso di salutare e passare un po’ oltre, no, per niente. “Non è più il cucciolo d’uomo che chiede al branco il permesso di andarsene, ma il signore della Giungla che sceglie un’altra pista. Chi può chiedere all’Uomo ragione di ciò che fa?”.
Davvero, partire è crescere.

E siete cresciuti anche voi, tra le difficoltà e le cime innevate, chitarra al collo, scarponi ai piedi, il fuoco di bivacco che illumina gli occhi.
Quella di Giulia è stata la prima di molte – splendide – partenze che si susseguiranno nei prossimi mesi, una dopo l’altra. Ciascuna di queste è un immenso successo, il vostro.
Siete arrivati al via nonostante il crollo del clan che vi precedeva, nonostante l’addio di molti che hanno smesso di crederci, nonostante le difficoltà del vivere la comunità a vent’anni, nonostante i nostri errori: ricostruire un clan non è stato cosa facile ma questi momenti di gioia dicono a tutti noi che ne è valsa la pena. Giulia ieri ha aperto un portone, quasi scoperchiato un vaso con tutti i vostri venti chiusi all’interno, e nel giro di pochi mesi prenderete il volo. I primi di questo clan.
Ne verranno altri, ci stanno già pensando.
Avete avuto il grandissimo merito di non aver smesso di crederci: è stato questo dono/forza a consentirvi di essere qui in questo momento. Forse, come molti prima di voi, avevate un sogno, un piccolo fuoco dentro di voi che non avete smesso di alimentare. Lì sta la differenza: tutti abbiamo un piccolo sogno, non tutti sanno alimentarlo. Molti lasciano che si spenga, perché custodire un sogno significa prendersene cura, pulire lo spazio attorno al fuoco, nutrirlo con legna secca quando è il momento, ripararlo dalla pioggia, fare attenzione che non incendi ciò che sta attorno. È un lavoro faticoso, non tutti accettano questo compito; lasciare che si spenga è, di solito, più facile, un po’ come arrendersi.
Dov’è il sogno?

il sogno ora finisce
e non finisce niente
e ancora avremo questo stesso cuore
dentro il cuore della gente
ed un po’ meno soli
e questo uomo che va via
le volte che si perderà
lontano fermerà il suo sogno qui
perché quel sogno è sempre stato qui

Ci siamo, è ora di andare… la strada chiama, non possiamo fermarci troppo oltre.
Grazie a Giulia per quello che abbiamo vissuto ieri; grazie a tutti gli altri per aver condiviso questo momento delle nostre strade. È bello per viaggiatori di lunghe vie ritrovarsi a un crocicchio e trascorrere ancora una sera attorno allo stesso fuoco.
Buona strada a tutti!

Boschi ed acque, venti ed alberi
saggezza, forza e cortesia
il favore della giungla ti accompagna!

 
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Pubblicato da su 25 giugno 2011 in Diari

 

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Uguaglianza?


Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Questo è l’Articolo 3 della nostra Costituzione, uno dei testi più avanzati, moderni e affidabili del diritto costituzionale – soprattutto se paragonata a vetusti materiali come la Costituzione Statunitense, fine XVIII° sec.
Ho passato buona parte dell’anno scout con il mio noviziato a discutere di Articolo 3, di uguaglianza (disuguaglianza) e di come nella realtà questo articolo è disatteso.
Certo, potremmo scomodare il Nano e spiegare perché i suoi “lodi” (che lodi non erano) sono stati bocciati – chiedendoci con che coraggio uno come Angiolino Alfano si presenti ancora in parlamento dopo che la Corte Costituzionale gli ha riso in faccia, silurando due leggi che portano il suo nome proprio per violazione dell’Articolo 3 – ma credo che esempi molto più vicini a noi possano toccare maggiormente i nostri animi.

Abbiamo analizzato davvero a fondo la questione, chiedendo opinioni alle persone comuni e scendendo nel dettaglio con chi ne sa più di noi; abbiamo impugnato la Costituzione e la sua storia; abbiamo rivisto la nascita e la crescita dei diritti civili, i diritti all’uguaglianza. E, in fin di riga, oggi chiudo con questo post un lavoro di un anno e riflessioni di molti mesi.
La Costituzione italiana non è vecchia – checché ne dica il centro destra, in cerca solo di instabilità istituzionale e di eliminazione dei contrappesi: la nostra Costituzione è un gioiello programmatico da salvaguardare, preservare e applicare fino in fondo.
Smembriamo l’articolo 3, oggetto di questo weekend, che vi racconterò poi:i cittadini hanno pari dignità sociale! Non ci sono cittadini di serie A, cittadini di serie B e cittadini in Champions League immuni alla Costituzione: i cittadini italiani sono tutti ugualmente importanti, in quanto persone. All’indomani della guerra e dell’orrore fascista questa era una conquista decisiva. Allo stesso modo, sono uguali di fronte alla legge, nonostante le differenze “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali“. Parole scritte, impresse nella Costituzione – la nostra carta fondante – e trasmesse alle generazioni future. Parole significative, che ci spiegano come i diritti non dipendano dall’essere maschio, musulmano, gay o francofono: è facile elencare categorie di uguaglianza, meno facile avere il coraggio estremo di porre quel “condizioni personali e sociali” così vasto da includere differenze che un domani si sarebbero create, differenze che all’alba della Repubblica non erano prevedibili. Mi piace immaginare che i Padri abbiano inserito questa voce anche pensando a questo: “Oggi noi non abbiamo idea di quali orrori sarà capace il futuro ma usciamo da quello fascista: affinché un giorno non ci sia più l’olio di ricino per chi non vota il partito, affinché domani non compaiano più le leggi razziali, affinché nel futuro tutti votino a prescindere da come sono, ecco: noi pensiamo che tutti i cittadini sono uguali a prescindere da qualsiasi folle criterio antidemocratico possa venire in mente a un aspirante dittatore“.

Fin qui credo si sia trattato di un’analisi del testo, quasi, sicuramente parziale e sicuramente poco originale. Forse un po’ sterile.
Quel che mi colpisce ogni volta che prendo in mano la Costituzione è il suo aspetto programmatico, particolarmente evidente nel secondo comma dell’Articolo 3.
Quel comma smette di dettare ampi principi, di definire i diritti ma formula un compito specifico per la Repubblica, un compito, quindi, che vincola tutti noi e al quale dobbiamo adempiere, anche lottare affinché si adempia. Il comma sancisce che spetta alla Repubblica – quindi anche a noi – far si che tutte quelle libertà elencate prima siano reali, si avverino e, anzi, ci impone di “rimuovere gli ostacoli” che ne impediscono la realizzazione.
Sono indeciso se ridere o piangere di fronte all’ultimo ventennio di politica italiana, se penso a questo passaggio.
La Gelmini vorrebbe dividere di nuovo la scuola in formazione professionale e preparazione liceale, come se un ragazzino di quattordici anni potesse decidere e come se la cultura fosse da riservarsi a un’élite, “tanto il meccanico non ha bisogno del latino”.
Le numerose riforme della sanità ci spingono verso una crescente privatizzazione, di modo che la sanità pubblica sia una sanità per i poveri, mentre la sanità privata garantirebbe cure di maggior qualità per chi può permetterselo.
Il precariato, l’instabilità contrattuale, i ricatti FIAT impediscono di fatto ai giovani l’indipendenza reale della loro vita rispetto al nucleo familiare di origine – o li obbligano a sforzi inumani per far quadrare i conti – ledendo la loro possibilità di partecipare all’organizzazione del paese. Un diritto che è anche un dovere che ma che la Repubblica boicotta sistematicamente.
Potremmo parlare anche delle misure approvate nel tempo che minano e impediscono lo sviluppo della persona umana: l’omicidio di stato dell’aborto, che colpisce creature indifese uccidendole prima ancora che possano esprimersi al riguardo è solo l’ennesima dittatura dei vincitori – se siamo qui è solo perché siamo vivi, quindi spetta a chi è vivo decidere di chi nascerà – e un monito che dobbiamo cancellare dal nostro futuro; la privatizzazione dell’acqua che strappa un bene comune al controllo della Repubblica, rendendola di fatto schiava delle intenzioni dei privati; la costante aggressione all’uguaglianza e alla libertà di tutti, per favorire uno solo; il “federalismo” (perché federalismo non è) che disattende l’uguaglianza di tutti, aggirando la perequazione, creando italiani regionali e non italiani nazionali”.
L’Articolo 3 e la sua applicazione programmatica non è un soggetto lontano e irraggiungibile, come la disuguaglianza non è un ricordo del passato o un articolo su fatti distanti da noi; la viviamo ogni giorno, magari la viviamo senza che possiamo accorgercene davvero. La viviamo, per restare qui a Savona, quando i maggiori partiti controllati dalle grandi lobby si accordano per una folle politica energetica sulle spalle della popolazione, ignorando e disattendendo ogni pronunciamento popolare della popolazione stessa.

L’uguaglianza di fatto in Italia è un sogno ancora lontano; giocando con i ragazzi ci siamo accorti di come sia difficile essere veramente uguali, dopotutto. Solo decidere di vestirci tutti allo stesso modo è stato complicato ed è costato sacrifici a tutti, e neppure ha raggiunto risultati ottimali. Accade che piccole differenze permangano sempre.
Qui dovremmo riflettere, in realtà, su cosa intendiamo per uguaglianza: dobbiamo, a mio parere, accettare di essere disuguali. Ci sono persone più alte, persone più grasse, persone maggiormente dotate in campo intellettuale, persone estremamente sensibili ai sentimenti altrui, persone di religioni diverse… e milioni di combinazioni per ogni fattore che possiamo immaginare.
Non c’è una normalità a cui adeguarsi… forse non è giusto che ci sia.
Il sunto dell’Articolo non è l’uguaglianza innanzi alla Legge, un valore che – disatteso dai soliti loschi figuri – dovremmo invece considerare scontato: è la pari dignità! Che io sia femmina, liberale, gay, ebreo, rom, catanese, geniale e senza una mano, il mio valore è esattamente lo stesso a quello di qualsiasi altro cittadino italiano, a prescindere da ciascuno degli elementi prima elencati. Io valgo per quel che sono e così ciascuno di voi, chiunque su questo pianeta, ha identico valore. Diverse potenzialità, certo, diverse condizioni locali ma identico valore agli occhi degli altri.
Questo è il principio che definisce l’Articolo 3: con questo principio, con quale diritto si fomentano distinzioni basate su popoli di natura fantasy e “nazioni” realistiche come Paperopoli? Con quale diritto si stabilisce che il denaro può comprare le cure mediche, l’accesso all’acqua? Con quale diritto la possibilità di farsi una famiglia, una vita propria deve dipende dal favore di un imprenditore? Con quale diritto questo imprenditore pretende di dettare legge sulla vita di chi dipende da lui, definendone l’accesso alla valuta?
Questo, nel nostro desiderio e nel nostro programma non dovrebbe più esistere: stiamo tornando indietro, le lotte del passato – le lotte vinte a caro prezzo – stanno venendo consumate da più direzioni con la connivenza di un governo menefreghista. Non sarà per una rivoluzione che imporremo il ripristino della giusta rotta, eppure è con la voce, con la protesta, con l’azione politica che possiamo restituire il paese alla direzione tracciata dai Padri Costituenti che, nella loro lungimiranza e nel sapiente equilibrio delle diverse vertenze, hanno donato ai loro Figli una pista sicura da percorrere. Una pista che oggi dobbiamo difendere e riaffermare perché non vada perduta.

 
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Pubblicato da su 2 Maggio 2011 in Politica

 

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