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Archivi categoria: Il Concilio

Bianchi, un papa pastore. Perché no?


Un mio favorito per occupare il soglio di Pietro ce l’ho: Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, costruttore di una realtà pienamente cristiana, pienamente attuale, pienamente conciliare.

So che le probabilità che i cardinali elettori riuniti in conclave indichino un nome esterno al loro consesso sono minime. Eppure erano minime anche le probabilità che un pontefice rinunciasse alla carica: non c’è precedente storico per questo gesto, mentre ce ne sono numerosi di elezioni extraconclave, Celestino V compreso.

Enzo Bianchi si è ritirato a Bose l’8 dicembre 1965, il giorno stesso in cui il Concilio Vaticano II giungeva a conclusione. Una data scelta simbolicamente per dare vita a un’esperienza di pura vita evangelica: Bose è una comunità che si fonda sì sulla tradizione cenobitica di san Paconio e san Basilio ma, soprattutto, è profondamente radicata nel Vangelo. Le sorelle e i fratelli di Bose condividono i beni, la giornata, la preghiera, ispirandosi direttamente al Vangelo come fecero i monaci dei primi secoli della cristianità.

Ad affondare secoli di costumanze stratificate, là a Bose è soprattutto il dialogo ecumenico: la Comunità accoglie cristiani di differenti confessioni, tanto da aver ospitato anche un patriarca ortodosso in pensione, alcuni anni fa, o alcuni pastori protestanti. Il dialogo tra cristiani, nell’arricchimento dovuto al confronto delle reciproche opinioni, è l’elemento che rende Bose un luogo speciale per tutta la cristianità. Tra tante parole e molti proclami di cammino unitario e avvicinamento, in mezzo a documenti e dichiarazioni controfirmate, a Bose si mette in pratica il cammino ecumenico di riavvicinamento della Chiese cristiane: si fa esperienza dove altrove si fa solo teoria.

Il coraggio con cui Enzo Bianchi ha pensato, dato vita e guidato la comunità è a mio parere la cifra specifica di questo personaggio che resterà impresso nei libri di storia della Chiesa, io mi auguro. Bianchi ha accolto il mandato lasciato a tutti dalla Chiesa, rinvigorito e riletto nell’ottica dei segni dei tempi contemporanei dal Concilio, e ne ha fatto la ragione stessa dell’esistenza: questo progetto è per lui il suo modo di dimostrare e applicare l’amore per Dio che ciascun cristiano è chiamato a mettere in pratica.

Questo coraggio nell’innovare la forma lasciando intatta la sostanza, anzi rinforzandola e rinvigorendola con l’approccio a nuovi strumenti è ciò che rende ai miei occhi Enzo Bianchi l’uomo ideale per guidare la Chiesa cattolica nei prossimi anni.
Potremmo anche aggiungere la sua estraneità ai meccanismi di curia, la sua purezza politica, l’età idonea per un pontificato non breve e neppure lunghissimo e molti altri elementi: tuttavia non credo che siano questi gli elementi determinanti per la scelta di un pontefice, non oggi. Abbiamo avuto un papa comunicatore e un papa teologo: oggi ci serve un papa pastore. Un pastore che cammini assieme al suo gregge, che ne abbia sperimentato le difficoltà e le sofferenze, che sappia rafforzare la Chiesa aprendola al dialogo con l’intera cristianità: se vogliamo essere pienamente cattolici non possiamo proseguire nell’isolamento e nell’autarchia. È il comandamento d’amore stesso che ci chiede di accostarci ai nostri fratelli cristiani e porci sulla strada del Padre assieme a loro. Enzo Bianchi può fare questo.

Non credo che, dopo la fumata bianca, il cardinale Tauran annuncerà il nome di Enzo Bianchi come futuro pontefice della Chiesa cattolica. Eppure un po’, in fondo al cuore, ci spero: se i 117 cardinali scegliessero un nome imprevisto, porterebbero a compimento un cambiamento epocale iniziato da Benedetto XVI, cogliendo l’occasione per rinnovare la Chiesa. Si tratterebbe, dopotutto, di seguire i consigli dell’attuale pontefice: non usare la Chiesa per il potere ma porla al servizio dell’umanità, perché essa segua il Padre. Tra molti nomi fatti in questi giorni, nessuno mi lascia così speranzoso per il futuro della nostra Chiesa come quello di Enzo Bianchi.

 
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Pubblicato da su 19 febbraio 2013 in Diari, Il Concilio, Religione, Sproloqui

 

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Dal Concilio alla Chiesa


Una mattina il cardinale Ottaviani si svegliò tardi. Chiamò un taxi: “Portami in fretta al Concilio”. Salito in auto, si riaddormentò.Quando finalmente si destò scoprì con suo grande stupore di trovarsi in aperta campagna. “Ma dove mi porti?”. Il taxista: “Al Concilio di Trento. Dove se no?”

Incontrare monsignor Bettazzi, un frammento della storia conciliare, possiede un fascino difficile da descrivere. E poi le occasioni di sentir parlare padri conciliari si fa sempre più rara, ancor meno se vogliamo voci che di quel Concilio hanno abbracciato appieno la portata innovatrice.
La rivoluzione copernicana della Gaudium et spesnon l’umanità per la Chiesa, ma la Chiesa per l’umanità – e quella della Lumen gentiumnon i fedeli per la gerarchia, ma la gerarchia per i fedeli – stentano ad affermarsi. L’ha detto chiaramente Bettazzi, raccontando ai savonesi il suo pensiero sul Concilio. E possiamo riassumerlo così: alcuni si sono ancorati alla Tradizione, dimenticando però che la Tradizione non è non cambiare nulla del passato

La Gaudium et spes, che evoca le possibilità e le speranze per il futuro, invita tutti i cristiani a essere cittadini migliori. Chi si fa corrompere o chi corrompe è lontano dall’essere cristiano quanto chi abortisce: questo perché l’elemento centrale, l’attuazione del comandamento di amore fraterno, del cristianesimo è la solidarietà. Solidarietà verso il debole, quindi verso la vita che nasce; solidarietà verso il prossimo, quindi verso l’intera società. Verso gli altri.

Dobbiamo recuperare molto dello spirito del Concilio, facendoci guidare dallo Spirito. La “pastoralità” non è autorizzazione a non concordare: scopo del Concilio è spiegare come la dogmatica deve essere applicata nella vita quotidiana della Chiesa e del cristiano. In quest’ottica, il Concilio non può essere un “forse” ma deve avere tutta la forza del vincolo di adesione – pur critica – alla Chiesa.
Male che l’opera del Concilio sia stata rallentata e, in certi casi, fermata. Male che molte intuizioni – come il Patto delle Catacombe – siano rimaste parole o carta. Oggi la Chiesa è chiamata a testimoniare con l’azione, non a predicare con le parole. Necessitiamo più che mai di una Chiesa povera, umile, imitazione di Cristo. Che era Re, certo – non possiamo dimenticarlo oggi – ma era una Re che si è svelato nel momento di salire sulla croce, quando s’è fatto servo dell’umanità intera. Non certo un Re di ori, diamanti e conti svizzeri; non un Re di nobiltà di sangue e di porporati. Un Re nato da falegnami, circondato da pastori, predicatore fra pescatori.
Quella è la dignità della Chiesa che le parole di monsignr Bettazzi hanno richiamato nella mia mente e nel mio cuore.

La chiamata che da questo Concilio arriva direttamente a noi laici segue questo filone di pensieri. Dobbiamo essere noi a prendere impegno in prima persone all’interno della Chiesa.
Credo che la Sacrosanctum concilium indichi una via da seguire. La costituzione conciliare chiarisce un punto che era un po’ stato trascurato con il passare del tempo – ma che è sempre stato chiaro nella teoria e nella teologia: l’eucarestia la celebra l’assemblea, il presbitero presiede “soltanto”.
Credo che sia lo spirito giusto con cui affrontare il futuro della Chiesa. Non più una Chiesa fatta di gerarchia e di consacrati, usufruibile dal fedele, ma una chiesa di popolo, dove il laico opera attivamente, nell’arricchimento reciproco delle vocazioni di ciascuno. C’è posto per tutti, c’è un ruolo per tutti.
E così anche nei vertici: non un Sinodo modellato dalla Curia ma un Sinodo che, guidato dal papa, sia traino per la Chiesa, con una Curia che si faccia carico dell’attuazione, con spirito di servizio.

In definitiva c’è bisogno che ci rimbocchiamo le maniche. Se ci teniamo alla Chiesa, tocca a noi sporcarci le mani: testimonianza, annuncio, accoglienza non possono gravare solo sulle spalle dei presbiteri e dell’episcopato. Tocca al laicato, ora, agire in prima persona. Ovunque.
Dobbiamo riformarla dal basso questa Chiesa, portare le istanze fino a vertice, far sentire tutta la distanza che c’è tra il popolo di Dio e molti prelati che hanno perso la bussola e si sono allontanati dal loro gregge. “Siamo qui, guidateci verso Cristo”, dobbiamo dire ai nostri pastori.

 
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Pubblicato da su 25 novembre 2012 in Il Concilio, Religione

 

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La Chiesa, i tempi e la bussola smarrita


Nichi Vendola sulla tomba di MartiniDovendomi occupare di politica in sostegno ai comitati per le primarie della sinistra per Nichi Vendola, è inevitabile che mi ponga domande riguardanti la natura e le specifiche di questo mio impegno, il partito che guida Vendola e l’insegnamento della Chiesa.
Sicuramente Vendola, che pur è cattolico, ha posizioni spesso in contrasto con quelle ufficiali della Chiesa, soprattutto quando si tratta di temi “etici” (come se non sfruttare i propri dipendenti non fosse una questione etica…). Vero è che questi stessi temi sono trattati a tutti i livelli della Chiesa e che, come ben sappiamo, il credente di base non sempre condivide le conclusioni a cui giungono i vescovi, oggi spesso distanti dal “sentire” del popolo. Vero è che anche la Chiesa su certi temi – omosessualità, eutanasia, aborto – si è espressa con fermezza e chiarezza da tempo.
Proprio nell’analizzare la coerenza delle mie scelte – vendoliano e cattolico, quadro Agesci e portavoce del comitato savonese per Nichi – sono sorte delle domande proprio su questo, che mi hanno spinto a riflettere sulla Chiesa, sulla sua missione e sull’attuale “stato dell’annuncio”, a cinquant’anni dal Concilio. Racconto allora le mie riflessioni: non sono conclusioni e non sono definizioni. Sono dubbi e domande, in divenire, perché la situazione mi interroga dal profondo e non credo basti un post e un pomeriggio di ponderazione per dipanare la nebbia.

Mi sono chiesto oggi se la Chiesa non stia concentrando il suo impegno su un solo fronte, scordando altri fronti o, comunque, tralasciandoli. E mi sono anche chiesto se questi “fronti secondari” sono davvero così marginali nel messaggio cristiano.
Essere favorevole ai matrimoni gay rischia di porre in contrasto con la gerarchia ecclesiastica e con il Magistero; tuttavia non lo fa lavorare per una multinazionale che sottopaga i propri dipendenti nelle filippine o che produce armi. Le conferenze episcopali – quando non il Vaticano – si scagliano contro le leggi che consentono unioni civili a prescindere dal genere ma non accusano gli stati di praticare politiche che creano maggior disuguaglianza sociale.
Su alcuni temi la predicazione si ferma a posizioni importanti, su altre pretende il vincolo del credente. Ma davvero è così prioritario impedire l’eutanasia e così di scarso valore lavorare per una miglior distribuzione delle ricchezze sul pianeta? Davvero un tema che riguarda la libertà di coscienza del singolo – libertà di coscienza che la Chiesa, con il Concilio, rispetta – deve occupare più spazio nella definizione del cristiano rispetto all’impegno per migliorare le condizioni di vita di miliardi di persone?

Non potrebbe allora prevalere la sensazione che la Chiesa stia perdendo la bussola, non sappia reagire ai temi che corrono e non riesca a far capire come Gesù Cristo e il Vangelo sono la risposta alle domande della donna e dell’uomo dei nostri tempi? Non lo fa, forse, perché sceglie male le battaglie in cui impegnarsi a fondo.
Credo che il cuore del messaggio cristiano sia l’amore fraterno. Spero, almeno in questo, di essere nel giusto. Parto da questa base, o almeno ci provo, nella mia vita, nella mia azione, anche nel mio schierarmi politicamente. E vedo, per esempio, che le politiche capitalistiche/neo-liberiste sono del tutto antitetiche con un concetto di giustizia sociale che si riferisca all’amore fraterno. Perché la Chiesa non interviene con la stessa forza e le stesse pressioni che impiega su temi scottanti quali l’eutanasia e l’omosessualità, contro il maltrattamento e lo sfruttamento dei lavoratori, contro il lavoro precario, contro lo stupro del Creato e contro l’uso della guerra per la risoluzione dei conflitti internazionali?Il Concilio, bussola per la Chiesa
Lo storico che è in me vede collusione con il potere; il credente cerca una ragione, cerca una bussola, cerca un aiuto e una spiegazione. Perché non riesce del tutto a vedere la Chiesa del Dio dell’Amore in queste scelte. E sa che la Chiesa in cui crede – quella della sua Confessione di Fede – non è la Chiesa “istituzionale” ma quella invisibile, nota solo al Padre. Questa è la risposta che si dà in quest’ora buia.

Prego molto su questi stimoli e queste riflessioni. Prego per capire e prego per avere la forza di cambiare le cose dove non mi sembrano rispondere al Disegno del Padre. Prego per il discernimento e prego per la Chiesa: noi cristiani, illuminati ora dal Concilio, dobbiamo tenere accesa quella candela, prima che si spenga e ci restituisca alle tenebre. Dobbiamo cogliere i segni dei tempi, respirarli e dal loro la Parola e il Padre come orizzonte di realizzazione. O ci estingueremo.

Un inciso polemico, solo uno, concedetemelo: in Italia il principale partito di riferimento dell’area cattolica è guidato da un divorziato risposato. Con figli. Penso possa spiegare molte cose riguardo alla coerenza… ma non mi solleva dalle domande sulla mia coerenza.

 
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Pubblicato da su 16 novembre 2012 in Diari, Il Concilio, Politica, Religione, Sproloqui

 

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Correggendosi…


Mi sono accorto che il pezzo scritto sul Concilio era inefficace. Essenzialmente mancava di anima, di sentimento, di sensazione vera.
Era forzato.
Penso che quello che troverete fra qualche riga sia più vero, più naturale. Forse meno informativo, probabilmente più incompleto. Indubbiamente più mio. L’avevo scritto per un forum ma credo possa andar bene anche sul blog. 
Con le scuse per l’inefficacia iniziale…

Giovedì 11 ottobre 2012. Cinquant’anni fa, un altro giovedì, la storia vedeva scriversi una nuova pagina. 
Era il giorno d’apertura del Concilio Vaticano II.

L’intuizione di Giovanni XXIII – quel papa Roncalli così amato dalla gente, così poco gradito da certi prelati di curia – era quella di convocare un’assise che leggesse i segni dei tempi e rendesse la Chiesa capace di interagire appieno con la contemporaneità. Da tempo, infatti, il linguaggio e lo stile dell’istituzione ecclesiastica rendevano inintelligibile il messaggio di Salvezza affidato da Cristo alla sua Chiesa. Chiusa in un conservatorismo asfissiante, incapace di rapportarsi con le emergenze e le urgenze di un mondo ormai troppo diverso, la Chiesa rischiava di perdere l’aderenza all’umanità che è uno degli elementi fondamentali perché l’annuncio possa riuscire. 
Roncalli giocò la carta del Concilio per smuovere l’intera struttura.

La Curia lavorò alacremente perché il Concilio fosse svuotato dai suoi contenuti: gli schemi predisposti, i testi già discussioni, le costituzioni imbastite. Tutto pensato perché, con un papa già malato, il Concilio fosse celere e si limitasse ad approvare posizioni standardizzate e neutralizzate. 
Ma i Padri Conciliari, guidati dallo Spirito, scompaginarono questa malevola influenza e vollero rivedere tutto da capo, riportare allo commissioni e alle sedute plenarie tematiche che la Curia avrebbe preferito non veder discusse nel Concilio. 
Lo Spirito agisce spesso per vie imperscrutabili ma nel Concilio s’è fatto chiaro attore e partecipe del rinnovamento, donando nuova linfa alla Chiesa. 

Il ritorno di Giovanni XXIII alla Casa del Padre non disarmò il Concilio; certamente la conduzione di Paolo VI fu maggiormente conservativa, eppure i blocchi erano stati tolti. I Padri affrontarono con coraggio le sfide della contemporaneità e le Costituzioni delinearono un’adesione ai principi fondanti della Chiesa insolita da molti secoli: il ritorno ai fondamenti della Tradizioni, alla missione apostolica del popolo di Dio e della Sua Chiesa ha caratterizzato tutti i testi conciliari, lasciando che lo Spirito illumini il cammino della Chiesa per mezzo di essi.

Ma, come sempre, lo Spirito non conclude l’opera: la lascia nelle mani dell’umanità perché cammini. E così molto del Concilio è stato poi disatteso o sviato. 
Una piccola ma tenace e rumorosissima – soprattutto perché sovrarappresentata tra le alte prelature – fazione conservatrice ha cercato per anni di snaturare e svuotare la forza di restaurazione dell’azione divina nella Chiesa operata con il Concilio. 
Eppure i cambiamenti fatti non sono cancellabili: il cammino prosegue

Oggi, cinquant’anni dopo, cosa ci rimane del Concilio? Quali i cambiamenti realmente portanti derivati dal Concilio? Quali le sfide alle quali la Chiesa è chiamata? Come rendere veramente efficaci, fino in fondo, le Costituzioni e i testi conciliari?

 
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Pubblicato da su 11 ottobre 2012 in Il Concilio, Religione, Sproloqui

 

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Cinquantesimo anno


Giovanni XXIII apre il Concilio Vaticano II

Giovanni XXIII apre il Concilio Vaticano II

Era un giovedì 11 ottobre 1962, un giovedì d’autunno come oggi. Quel giorno si aprivano le speranze situate nei cuori di un miliardo di cristiani. Un gesto coraggioso quello compiuto dal pastore bergamasco, quasi un pretone di campagna asceso al soglio pontificio; incaricato tra le righe dal Conclave di reggere la Chiesa per qualche anno in un pontificato di transizione, Angelo Roncalli seppe leggere quei segni dei tempi che richiedevano una profonda rivisitazione della missione pastorale della Chiesa e dar loro forma con la convocazione del Concilio.
Il pastore cambiò per sempre il corso della nostra storia e dette alla Chiesa gli strumenti per presentarsi con maggior efficacia di fronte alle sfide del XX° secolo.

Cinquant’anni dopo la Chiesa delineata da quel Concilio è ancora lontana dal compiersi. Troppe le paure, troppo rumorose le numericamente piccole resistenze conservatrici, troppo il timore di perdersi nel cambiare pagina.
Siamo ancora troppo spesso una Chiesa immobile, incapace di far vedere all’umanità come la risposta principale sia Cristo. Chi si volta indietro, osservando con bramosia i tempi in cui la Chiesa era padrona delle menti e dei regnanti, perde di vista l’orizzonte storico entro il quale il cristianesimo deve rimanere, soprattutto la Chiesa. Essa è, insieme, la comunità dei credenti e il Corpo di Cristo incarnato nella storia: dimenticando una di queste dimensioni si va incontro allo smarrimento.

Ritornando sull’immobilità e sulla paura, ascoltando i discorsi di chi si dice “tradizionalista”, sembra quasi che nel passato la Chiesa abbia vissuto senza alcuna difficoltà. Eppure, come diceva Giovanni XXIII aprendo il Concilio, “non possiamo tuttavia negare che nella lunga serie di diciannove secoli molti dolori e amarezze hanno oscurato questa storia“. Conosciamo oggi molti dolori, molti errori, molte pecche di questa Chiesa, emerse da quel 1962 a oggi; non dimentichiamo mai gli scandali della pedofilia, coperti da ogni livello ecclesiastico, curia romana compresa. Chi mira alla sola tradizione, facendosi fanatico, dimentica le difficoltà e gli errori, dimentica l’umanità insita nella Chiesa. E dimentica che con il Concilio i passi verso la tradizione apostolica, quella antica di duemila anni, sono stati molto più notevoli che nell’immediato post-concilio tridentino.

Francobollo celebrativo del Concilio Vaticano II

Francobollo celebrativo del Concilio Vaticano II

Il Concilio ha aperto nuove frontiere e qualche spaccatura: d’altronde Cristo “è qui per la rovina e la risurrezione di molti…, segno di contraddizione“. Una contraddizione che impone al cristiano stesso, se egli guarda appieno al mondo che lo circonda, perché il messaggio di salvezza e amore è quanto di più contraddittorio possiamo trovare con l’attuale società.
Eppure il cristiano è chiamato a non fuggirne, anzi: deve operare al suo interno senza mai venir meno al dovere di mostrare Cristo agli altri. Sempre, anche quando la speranza sembra svanire, anche quando non sembra esserci alcuna presenza paterna e fraterna, anche quando nulla ricorda alle nostre menti il Padre.
Contraddittorio anche interno alla Chiesa. Una maggioranza, silente e operosa, dedita a proseguire l’opera del Concilio; una minoranza, rumorosa e molesta, impegnata a smontare lo sguardo ai tempi, a distruggere l’efficacia dell’evangelizzazione, a minare l’annuncio. La Chiesa non è fatta di teologi e cardinali, di prelati timorosi, ma di credenti che si sporcano le mano ogni giorno tra i poveri, gli affamati, i malati, i dimenticati. Come faceva Cristo.
Memori delle Scritture, però, ci ricordiamo che Dio è nella brezza, non nel fuoco, nel terremoto o nel vento.
Quella brezza, ancora, lavora per portare il messaggio cristiano nel XXI° secolo, nonostante le difficoltà.

Delineo, allora, la necessità di lavorare fino in fondo sul mandato conciliare.
Serve un maggior impegno del laicato nella gestione ecclesiastica, a ogni livello. Urge un coinvolgimento di base, come urge un coinvolgimento graduale anche ai più alti livelli. Non c’è alcun bisogno che tutte le cariche della Chiesa siano ricoperte da ecclesiastici – maschi – quando il ruolo presbiterale è ben più importante. Certamente la guida episcopale – il pastore – è fondamentale e insostituibile ma molte svolte possono essere compiute.
Serve un reale confronto con le questioni che riguardano la contemporaneità, a partire dal confronto con i laici, i fratelli cristiani, gli atei, i credenti di altre fedi: fine vita, sessualità, giustizia. Leggere i segni dei tempi, come disse papa Roncalli.
Serve un chiaro impegno sociale della Chiesa, senza mezze vie, senza titubanze, senza intrighi di palazzo. Il cristianesimo deve schierarsi compatto al fianco degli ultimi: bambini, persone senza diritti, disoccupati, malati, donne, perseguitati, carcerati.
Infine, serve un profondo processo di purificazione della Chiesa. Interiore, soprattutto: questioni da affrontare non mancano, modi di fare datati da sostituire neppure.
C’è ancora molta, moltissima strada da fare.

Posso solo dire e sperare, citando Giovanni XXIII: “È appena l’aurora

 
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Pubblicato da su 11 ottobre 2012 in Il Concilio, Religione

 

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